La meno peggio gioventà¹

Sono andato qualche giorno fa a vedere il malloppometraggio di sei ore di Marco Tullio Giordana, e ho capito un sacco di cose non tanto su questo paese (a quello c’ha pensato il mio presidente che finalmente ha detto chiaro e tondo qual è il genio italico: pane al pane e vino al vino… i tedeschi sono tutti nazisti, gli arabi inferiori, i morti rompicoglioni, i filosofi puttanieri…).

Ho capito un sacco di cose su quella cosa chiamata sinistra in cui (spesso senza volerlo) mi sono tante volte identificato (stesso tavolo al ristorante, stessi libri sullo scaffale, stessa fila al cinema…). Ecco la cosa che ho capito: che questa sinistra è una roba che si è dimenticata abbastanza del passato, e che per il futuro campa alla giornata, meno peggio dell’orizzonte degli eventi rappresentato dalla destra a cui si contrappone, ma ugualmente evanescente. Massimalisticamente parlando, è così.
Quello che ho visto è un film mortalmente noioso, con un senso storico che non si innalza oltre una preparazione da secondo liceo, ideologicamente violento senza dirlo. Insomma un manifesto di quella che è la sola proposta culturale omogenea della sinistra oggi: il veltronismo. (Avete letto il libro su Luca Flores?, avete letto la prefazione la libro delle barzellette di Totti?… l’epoca della Nutella, sappiatelo, era il pensiero forte…) E il veltronismo ha una suo firmamento di riferimenti, ha i suoi idoli che nel film compaiono tutti:
1. La letteratura come amuleto. Uno dei due fratelli protagonisti, quello più tormentato che finisce a fare il celerino e poi si ammazza, si porta appresso sempre un sacco di libri che non hanno nulla a che fare con l’interpretazione della realtà , anzi gli sono per lo più di ostacolo/danno nei rapporti con gli altri. L’equazione è letteratura=schizofrenia che porta al suicidio (presente Accorsi che fa Campana? Presente tutti i serial killer pseudo-colti?). Leggere sì, ma con cautela, che la vita è una partita di calcetto.
2. L’assoluta rimozione di un’interpretazione minimamente marxista, storicista, qualsiasi cosa. Perché si diventa celerini e non psichiatri? perché ci si dà  alla lotta armata? Nel film di Giordana non esiste conflitto di classe (l’operaio Claudio Gioè licenziato alla Fiat finirà  a fare l’operaio specializzato per restaurare il casale dell’amico ricco), non esistono neanche ideali contrapposti. Le distanze tra le persone (manifestanti contro polizia, pacifisti contro terroristi) sono dettate solamente da tic caratteriali. Perché la lotta armata? Per nervosismo. Uno gli gira il culo, e diventa clandestino.
3. L’idolatria per la psicologia, la psichiatria (in questo caso l’antipsichiatria di Basaglia). Nello sterminio ormai incruento delle ideologie (non si ricorda proprio più di cos’era l’una cosa o l’altra) l’unico valore positivo (che non sia tautologicamente la vita) è la psicologia. Le altre possibilità  ermeneutiche sono totalmente azzerate. Le persone non sono convinte di quello che fanno ma sono in assoluta preda al loro portato. A quel punto il protagonista non può che essere un Luigi Lo Cascio, versione aggiornata e normalizzata del Sergio Castellitto del Grande Cocomero. Un personaggio che semplicemente non può sbagliare (perché non ha nessun aut aut che gli si presenti).
4. L’inconsistenza del Sessantotto, a cui vengono dedicati un paio di minuti per cui sembra che le lotte del periodo avessero l’inconsistenza giovanile di un’occupazione. Il Settantasette è ancora più ridotto a rimosso. Gli scontri ormai si svolgono nell’indefinitezza totale, sono fumo e corse tra i portoni, stare di qua o di là  significava la stessa cosa, una spruzzata (giusto una spruzzata) di Pasolini su Valle Giulia e passano gli squilibri. Ed ecco una Genova antelitteram come l’abbiamo vista raccontata dalla tv.
5. L’ideologia di una gioventù senza alcun fascino. Il giro in Europa, le scopate con le svedesi che ci stanno facile, le corse in macchina, le corse sulla Vespa. Sapore di mare finalmente rivendicato. E tutto questo viene evocato per tutte le cinque ore successive del film come un paradiso perduto. Un’età  stupenda che la nostra vita non potrà  mai uguagliare. Ho vissuto un’adolescenza incasinata io, ma se ve ne racconto due minuti mi state a sentire di più.
6. Il vero successful man del libro è l’economista di sinistra, ciampiano, che realizza alla fine il vero ideale di sinistra: il villone in Toscana, dove da vecchi rievocare ancora per fare girare a Bertolucci Io ballo da sola. La fine del film è lì. In un villone fra tanti amici: in un villone (con la gente che voglio io, con la mia sinistra selezionata), non in una manifestazione. Non è un particolare. Scola (v. sotto) era radicale: Gassman nella villa se ne stava ricco e solissimo alla fine del film, Manfredi con la Sandrelli a fare la fila per iscrivere i figli a scuola insieme al mondo.
7. La sudditanza nei confronti dei modelli che non si è riusciti a omaggiare. L’ombra opprimente che schiaccia La meglio gioventù a una nientepiùcheunafiction è appunto quella di Scola di C’eravamo tanto amati. Laddove per Scola il brodo primordiale che univa le menti e i cuori era la Resistenza, Giordana sceglie l’alluvione di Firenze. Da quel punto in poi perché le sorti si separano. Per Scola perché ognuno fa le sue scelte, per Giordana per nessun motivo. Il fratello tormentato Alessio Boni (un po’ deluso un po’ incazzato) diventa poliziotto (“Volevo delle regole”? dice due ore e mezza dopo, quando lo spettatore continua a non capire proprio perché si è ficcato in un ruolo insensato per le cose che pensa e che fa). Per Scola narrare la storia di quel paese voleva dire mettere in scena le file per iscrivere i bambini a scuola, per Giordana lo sciopero alla Fiat dell’80 viene detto (e non mostrato) attraverso la lettera di licenziamento che Gioè l’operaio tira fuori a un certo punto dalla tasca del vestito buono.
8. La morbosità  della regia. Primi piani, musichine, iperfinali (il fantasma del fratello morto che ricompare alla fine), dettagli risibili per fare capire che un film che ricostruisce una storia: ritagli di giornali, e telegiornali dappertutto.
Forse sì non è giusto accanirsi, perché ci sono cose da salvare: gli attori (a parte un Lo Cascio spaesato a fare un Cristo laico completamente privo di angoli) sono bravi o almeno professionali e costruiscono quanto meglio possono dei personaggi che hanno delle battute che restano a mezz’aria. E poi, è vero, la scena del processo coi malati di mente che accusano il loro ex-aguzzino ha un che di toccante ”“ in mezzo anche lì a cumuli non di retorica ma di esplicitazione forzata. Perché è come se il dubbio di Giordana alla fine fosse semplicemente questo: si capisce da che parte sto, sì? Sì, si capisce benissimo. Dalla parte di Jovanotti, dalla parte di chi può essere recensito bene dal Guardian e andare poi da Vespa. Dalla parte in cui non voglio stare io.