Teatro Mercadante: un accordo nullo?

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Il Comune verserebbe
1.500 milioni al Consorzio
per contare meno del
due di bastoni

Teatro Mercadante:
un accordo nullo…

di enzo colonna

Pochi sapranno che l’Amministrazione
comunale, in particolare su iniziativa ed opera dell’assessore
Vito Marvulli, ha da mesi avviato una trattativa con il Consorzio
Teatro Mercadante per risolvere il problema della chiusura (ormai
quasi decennale) del teatro. Ancor meno persone avranno appreso
che un’intesa è stata raggiunta. A dire il vero si tratta
di un accordo che, per ora e finché non verrà ratificato
dal consiglio comunale e dall’assemblea dei consorziati, non
impegna nessuno, nemmeno i quattro gatti che senza alcun reale potere
di rappresentanza vi hanno aderito. Ci sarebbe da discutere su certi
metodi adottati a più livelli (Comune, partiti, associazioni…)
per affrontare e risolvere questioni che hanno una rilevanza collettiva;
ma tant’è, prendo atto che la realtà politica
e civile di Altamura non concede spazio all’idea di un’attività
amministrativa partecipata (vale a dire, che veda coinvolti i diretti
interessati nei processi decisionali che li riguardano) e non offre
motivi per nutrire una ragionevole speranza di cambiamento.

I silenzi sono significativi. Ricorro
a facile retorica, ma non credo di esagerare, dicendo che il silenzio,
sotto cui e da ogni versante politico si sta facendo passare l’accordo,
fa venire alla mente quello proverbiale di cui approfittano i ladri
notturni. A ben vedere, di un furto (non ancora consumato) ai danni
della collettività si tratta. L’intesa raggiunta impegnerebbe
il Comune di Altamura ad acquistare, per un miliardo e mezzo, un
terzo della proprietà del teatro; con tale somma (che, invero,
sarebbe più che sufficiente ad espropriare tutto il Teatro),
il Consorzio potrebbe avviare quei lavori minimi ed indispensabili,
che non è stato in grado di effettuare in tutti questi anni
con risorse proprie (private!), per l’adeguamento dell’immobile
alle misure di sicurezza ed alla risistemazione forse di qualche
intonaco e di qualche poltroncina di modesta qualità. Non
altro, dicono gli esperti, è possibile effettuare con quella
cifra, a fronte di un teatro che, chiuso da dieci anni, avrebbe
bisogno di interventi ben più radicali e costosi. Solo che
il teatro fosse nelle mani del Comune, sarebbero disponibili molti
finanziamenti statali che recenti leggi (proposte da Veltroni) assicurano
sia per le ristrutturazioni che per le attività teatrali.

Il problema non è però
questo o, meglio, non è solo questo. In realtà, ciò
che ci vogliono propinare come un acquisto (un terzo del teatro!),
non è altro che una donazione senza ritorno da parte del
Comune (cioè, tutti noi) a favore dei consorziati, che non
sono disposti a tirare fuori una lira.

Dico subito che un accordo del genere
solleva fondati e gravi dubbi di legittimità giuridica, contabile
ed amministrativa. Non penso, a dire il vero, che i trenta consiglieri
di maggioranza ed opposizione, siano così folli da ratificarlo
in consiglio comunale: il rischio è che la Corte dei Conti
li condanni a tirare dalle proprie tasche almeno cinquanta milioni
a testa.

Infatti le domande a cui l’assessore
Marvulli ed il dott. Leto, rispettivamente l’autorità
politica ed il responsabile amministrativo più direttamente
coinvolti nella vicenda, non vogliono o non sono in grado di rispondere
sono due:

  1. perché il Comune dovrebbe acquistare un
    terzo dell’immobile, condannandosi a svolgere, in futuro
    e nella gestione del teatro, un ruolo di eterna ed irrilevante
    minoranza nel consiglio di amministrazione e nell’assemblea
    del consorzio?
  2. che cosa realmente compra e, soprattutto, è
    sicuro di acquistare dai reali proprietari?

In ordine al primo quesito, è
il buon senso comune (di imprenditori alle prese con l’acquisto
di un’azienda, padri e madri di famiglia alle prese con l’acquisto
della casa per la figlia, giocatori di lotto e lotterie alle prese
con le quote, casalinghe impegnate nella lotta quotidiana con gli
altri condomini…) a dire che è assolutamente illogico
acquistare per un terzo una cosa non frazionabile di cui non si
può godere (nemmeno per un terzo), di cui non è possibile
determinare (perché in minoranza) l’impiego e la destinazione.
Faccia un passo avanti chi è disposto ad acquistare, ad esempio,
la quota di terzo di un appartamento, sapendo che il proprietario
dei restanti due terzi continuerà ad abitarci e, a piacimento,
potrà decidere di concederlo in locazione? Chi è disposto
ad acquistare la quota di un terzo di una schedina, sapendo di non
poter profferire parola sul 2, inopinatamente dato dal titolare
delle altre quote, al Bari che gioca in casa e, soprattutto, di
non poter controllare la scheda madre per verificare se si è
fatto tredici o no? Sono quelle situazioni paradossali di condominio
che si determinano, ad esempio, quando dal povero nonno defunto
i tre nipoti ereditano i due tomoli di terra: un bel guaio far fronte
ai famelici titolari degli altri due terzi che si sono coalizzati
per fregare il terzo!

Tanto vale chiamare le cose con il
loro nome: questa storia dell’acquisto di un terzo del teatro
sembra inventata di sana pianta per far digerire ai poveri ed utili
idioti (che pagano oneri di urbanizzazione, tasse e balzelli comunali,
e per di più alle prese con gli odiosi ed illegittimi accertamenti
fiscali disposti dal Comune) un vero e proprio finanziamento a fondo
perduto a favore di uno sparuto manipolo di trenta persona. Se questa
è la politica culturale e di investimenti che l’Amministrazione
intende da ora in poi perseguire, sarà bene, da domani, presentarci
in Comune e proporre la vendita di quote (non al di sopra di un
terzo) dei nostri appartamenti fatiscenti, delle nostre aziende
in dissesto: possiamo stare tranquilli, il Comune ci finanzierà
i necessari interventi di ristrutturazione o di investimento, e
noi, dall’alto dei nostri due terzi, continueremo comodamente
ad abitare i nostri appartamenti ristrutturati o a gestire le nostre
aziende risanate. Risultato: 1- 0; anzi, rispettando le quote, 2
—1 per i furbi.

Veniamo ora al secondo quesito. Il
codice civile, oltreché la logica comune, dispone che un
contratto (di compravendita, ad esempio) è valido se il suo
oggetto è possibile, lecito, determinato o determinabile;
in più, per poter acquistare validamente ed efficacemente
è indispensabile che chi vende è davvero il legittimo
titolare del bene venduto. Sono rispettate le due condizioni nell’accordo
in esame? Pare proprio di no. Ed il notaio che si dovesse prestare
alla stipula di un atto palesemente nullo andrebbe incontro a sicure
sanzioni disciplinari.

Per tentare di essere chiari sul punto,
ricorro ad un’argomentazione schematica:

  • Il teatro è stato edificato alla fine del
    secolo scorso su un suolo di proprietà comunale. Il Comune,
    con una convenzione, concesse ad un comitato l’utilizzo del
    suolo per la sua costruzione. Il comitato cittadino si fece promotore
    di una pubblica sottoscrizione a cui aderirono circa trecento
    altamurani. Non solo il suolo, ma anche il sipario è di
    proprietà comunale, trattandosi di quello proveniente dal
    Teatro Comunale S. Francesco andato poi distrutto. Chi sottoscriveva,
    versando una somma di denaro, aderiva ad un regolamento statutario
    che prevedeva a favore dei sottoscrittori non l’acquisto
    della proprietà di una quota del teatro, ma il solo diritto
    di palco o di poltrona, cioè il diritto di essere preferito
    nell’acquisto dell’abbonamento stagionale relativo a
    quel palco o poltrona.
  • Tutto ciò era perfettamente chiarito nello
    Statuto originario, l’unico che rileva giuridicamente in
    quanto l’unico conosciuto e sottoscritto da coloro che versarono
    realmente le quote di denaro per la costruzione del teatro. Peraltro,
    due leggi degli anni trenta hanno disciplinato in modo altrettanto
    chiaro il diritto di palco, che veniva distinto dal diritto di
    proprietà che poteva ben spettare ad un altro soggetto
    (pubblico o privato). Solo con una modifica statutaria recente
    (1993), i consorziati (circa 70 persone, delle quali la maggioranza
    ormai disinteressati alle vicende del teatro: è evidente
    che i 70 sono gli eredi solo di alcuni dei trecento originari
    sottoscrittori) si sono proclamati, in modo del tutto unilaterale
    ed arbitrario, proprietari esclusivi in condominio del teatro.
    A questo proposito è sufficiente rilevare un’evidente
    contraddizione. Delle due l’una: o, come dicono nell’ultimo
    statuto, sono proprietari pro quota, ed allora non si capisce
    come possano con un tratto di penna o con una clausola statutaria
    tagliare fuori tutti gli altri eredi (300 — 70 = 230), seppure
    assenti o sconosciuti, trattandosi di un diritto (la proprietà)
    imprescrittibile e non violabile con una regola statutaria, che,
    nell’ipotesi, sarebbe palesemente nulla. Oppure i singoli
    consorziati, come disponeva chiaramente lo statuto originario
    e come in effetti è, non sono in realtà proprietari
    di quote, ma semplici associati a cui è riconosciuto unicamente
    quella preferenza nell’acquisto dell’abbonamento stagionale.
    Nulla di più.
  • Un’ultima precisazione è necessaria
    dal punto di vista ricostruttivo. Al Comune di Altamura, in quanto
    concedente il suolo, ed all’ingegnere Striccoli (quindi ai
    suoi eredi), che aveva progettato gratuitamente il teatro, era
    riconosciuta la proprietà piena rispettivamente del palco
    centrale (di rappresentanza) e di una poltrona. Il Comune, dunque,
    è già un membro (qualificato) del consorzio.

Tornando al profilo della validità
o meno dell’acquisto di una quota pari ad un terzo, dal quadro
storico-giuridico sommariamente descritto si ricava che: a)
se si ritiene, come fanno inopinatamente ed ingiustificatamente
gli attuali consorziati, che i singoli consorziati siano proprietari
pro quota o condomini dell’edificio, il Comune (esso
stesso consorziato di prima classe) non può acquistare un
terzo di una cosa di cui esso stesso è già, pro
quota
, proprietario; b) se, invece, più correttamente
si ammette che i singoli non siano proprietari di un bel nulla,
ma siano semplici membri di un associazione non a fini di lucro
o, a mio parere, componenti di una fondazione (di fatto) a cui era
ed è da riconoscere un semplice diritto di palco o poltrona,
il Comune non può acquistare, con denaro (un miliardo e mezzo),
uno status di associato (o componente di tale fondazione)
che già gli è riconosciuto dallo Statuto e dalla convenzione
stipulata all’epoca; né può acquistare, per la
bella cifra di un miliardo e mezzo, il solo diritto o capriccio
di contare di più (da 1/70 a 23/70, cioè contare un
terzo). Sarebbe come se al circolo del tresette avessero bisogno
di denaro liquido per effettuare dei lavori di pitturazione della
sede e proponessero a Silvio di versare un po’ di soldi all’associazione
in cambio dell’impegno a considerare il suo voto due volte
quello di Onofrio, nel momento in cui, nell’assemblea degli
associati, si dovesse decidere se comprare la birra Peroni anziché
la Raffo. E’ bene ricordare che lo status di associato
(o di componente di una fondazione) è condizione ben diversa
da quella di socio di una società commerciale o di condomino
di un edificio, in cui la quota corrisponde esattamente alla misura
dell’apporto patrimoniale iniziale o del titolo di proprietà
individuale.

Una volta escluso che si possa parlare
di una proprietà ripartita in quote tra i singoli consorziati
e considerato il consorzio un soggetto giuridico che riunisce i
titolari del semplice diritto di palco (o poltrona), resta da domandarsi:
chi è il proprietario del teatro? Il quesito non è
facilmente risolvibile, le risposte possibili sono due: o si ritiene
il teatro in proprietà indivisa, nemmeno pro quota,
del Consorzio, inteso però, si è detto, come soggetto
giuridico autonomo e distinto dai singoli i quali, si ripete, non
sono proprietari di nulla; oppure lo si considera di proprietà
della città, quindi del suo ente esponenziale che è
il Comune. Giuridicamente, la questione è complessa, ma fa
piacere ricordare la gloria e la lungimiranza che fu’ dei nonni
e bisnonni. Un secolo addietro, si proposero di fare qualcosa per
la città, quindi per se stessi; sottolinearono, nello statuto,
che la città aveva bisogno di un teatro, di un luogo di cultura
per gli altamurani; si impegnarono a raccogliere e versare denaro
e si obbligarono, anche contrattualmente, con l’amministrazione
dell’epoca a rivolgersi ad un’impresa di costruzioni altamurana,
a ricorrere alla manodopera altamurana, a coinvolgere, insomma,
in quella loro idea l’intera città: e così fu’,
se si pensa alle circa 300 sottoscrizioni, al numero di artigiani
ed operai impegnati nei lavori, al suolo ed al sipario che furono
concessi dal Comune… Mi piace pensare allora, e forse il diritto
milita a favore di queste interpretazioni, che il teatro fu costruito
per la città. Un esempio mi sembra più efficace di
tante argomentazioni giuridiche e – sembrerà strano, ma questa
città vive di queste incomprensibili contraddizioni —
mi è stato suggerito proprio dal nostro Sindaco in occasione
di una recente e piacevole conversazione, del tutto informale, sull’argomento.
A me, che discettavo in punta di diritto, mi fece osservare: "E’
quanto è avvenuto per Padre Pio". Scusi, Sindaco, che
c’entra Padre Pio? "Eh sì, parlo della statua di
Padre Pio che abbiamo eretto vicino alla Consolazione. Mi attivai
con un gruppo di altri fedeli e costituimmo un comitato: raccogliemmo
soldi e contributi, chiedemmo l’autorizzazione al Comune trattandosi
di suolo pubblico e riuscimmo nell’impresa. La statua è
lì". E quindi? "Insomma, mica noi diciamo che la
statua è nostra, magari in condominio!". Bravo Sindaco!
Trenta e lode in diritto privato, ma se vuol meritarsi un altro
trenta, per il Teatro Mercadante, dovrà cambiare programma
di studi e soprattutto professori.