Tuta blu 2002, ritorno all’inferno

Ignazio Minerva

MALEDETTA fabbrica. Le ire, i ricordi e i sogni di un operaio del Sud negli anni settanta sono nella pagine di Tutablu, il libro che il poeta-tornitore Tommaso Di Ciaula pubblicò per Feltrinelli (1978), in cui – parole di Paolo Volponi – “la natura contadina sfrigge a contatto con la lama rovente della condizione di operaio”. Trent’anni dopo, esterno giorno: operai manifestano davanti alla sede della Regione Puglia con bandiere e striscioni. A lato, poco distante dai difensori della forza-lavoro prestata al padrone in cambio del sudore (“spremuta di operaio caduta a terra”), fuori dal coro di proteste, un piccolo soldato blu si chiede perché non sia con gli altri del gruppone. E’ solo un attimo ma già  Nicola Rubino, il signor-tutti-e-nessuno, vorrebbe essere altrove. “Via da qui” è il titolo del romanzo breve di Francesco Dezio, trentenne di Altamura (zerozerosud, 88 pagine, 5 euro, 0, 0); “TutaBlu2002”, si potrebbe aggiungere, con un’espressione dal retrogusto cinematografico. Dopo la morte in banca, di Giuseppe Pontiggia, una morte in fabbrica: attraverso un linguaggio beffardo e provocatorio (con piccole note che rappresentano una voce sospesa tra fantasia e realtà  e i “sovrappensieri” dei personaggi) viene ritratto un mondo disperato, in cui i “capetti” dominano per imporsi ai sottoposti che tra profferte e vessazioni a volte resistono, sfidando il giogo di un reparto radioattivo alla Homer Simpson.

La rinascita, l’amara rivincita, spiega Michele Trecca, è nel linguaggio avantpop. “Nell’era dei newmedia, Dezio sfida i padroni sul terreno della comunicazione: la sua verità  di carne e sangue contro la demagogia tecnologica e patinata delle tre I di Internet, Inglese e Informatica. Un sabotaggio. Un inno alla rivolta”. Per uomini che sono annientati dalla ripetitività  del lavoro e trasformati in una “pretty hate machine”. Scrive Dezio: “Il pezzo che abbiamo in produzione oggi è il più pesante della serie: dieci chili. Prima su un braccio, poi sull’altro. Ne faccio mille a girnata. Non c’è bisogno della palestra. Devi vedere che mostro di bravura sto diventando. Una spinta energica e scarrello. Tutte queste operazioni le compio in meno di venti secondi. Quando voglio spaccare ce ne metto quindici. Il pezzo vola nelle mie mani. Mi avanzano cinque secondi per rilassarmi. Divento macchina: una delicata macchina d’odio”. Sono tornato uomo – aggiunge – “e ho raccontato questa esperienza in un’azienda metalmeccanica”.

E adesso?

Dopo il contratto di formazione non sono stato riconfermato e quindi non lavoro più in fabbrica. Anzi: non lavoro più. Punto. Il mio ricordo peggiore è un bisogno di ordine smisurato. Una disciplina vicina all’ambiente militare. Per produrre tutti devono restare in postazione. Nella mia versione allucinatoria eravamo una grande macelleria, con l’operaio carne da catena di montaggio; come nelle guerre mondiali il soldato era carne da cannone. E per quel che mi riguarda nessuna solidarietà  tra colleghi.

La classe operaia è andata in pensione?

Non l’ho mai vista: l’operaio deve annientarsi, è sopraffatto dal desiderio di possedere oggetti e perde di vista gli ideali. E’ frenato da un’immensa paura di restare senza il posto di lavoro, riconoscente in eterno al padrone che gliel’ha concesso. Alcuni sindacalisti, inoltre, hanno un ruolo di mediazione a volte ambiguo e non sempre dalla parte dei lavoratori. E poi si tende a indorare la pillola con gli inglesismi del marketing in una realtà  operaia che è sempre quella. Parliamo di “career”, di carriera, anche per i saldatori.

Qual’era il suo compito?

Verniciatore. Anche se verniciavo ben poco: è un mastodonte di macchina che vernicia. Poi dovevo passare il pezzo all’altro compagno.

E se avesse fatto “career”?

Sarei diventato verniciatore ‘team leader’. In quel ruolo non si fa più niente: devi osservare, come un cane da guardia.

Insomma è un girone infernale…

Sì, anche per il caldo che d’estate supera i quaranta gradi. Da svenire.

I suoi numi tutelari?

Vollmann di “Puttane per gloria”, anche se una vena surreale era già  nelle mie corde; Easton Ellis e la sua violenza espressiva; Trecca, a cui ho scroccato i libri di Nanni Balestrini…

E Tommaso Di Ciaula?

L’ho apprezzato molto. L’ordinaria follia delle sue storie è meglio di Bukowski. Ci sono momenti “bucolici” che condivido meno.

La colonna sonora del libro?

Sicuramente la musica industriale degli Einsturzende Neubauten, tipi che suonano martelli pneumatici sul palco. Me ne sono sparato massicce dosi: un modo per cauterizzare le ferite.