Padrone attento, gli operai son tornati.

A pochi giorni dalla ristampa di “Tuta blu” di Di Ciaula riprende fiato un genere letterario che sembrava scomparso

Antonio Turi

Sarà  merito della lunga battaglia sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, sarà  di un autunno che ancor prima di cominciare si annuncia molto più caldo dell’estate che l’ha preceduto, certo è che negli ultimi tempi sembra aver preso vigore un genere letterario che la moderna evoluzione della nostra società  sembrava aver condannato: il romanzo di ambientazione operaia. Il successo de “La dismissione” di Ermanno Rea, ambientato in quel lager socio-ambientale chiamato Bagnoli, successo preceduto dalla ristampa di un famoso trittico di Nanni Balestrini, costituisce solo la punta di un iceberg che promette di riservarci ben altre sorprese nel futuro.
Ma se come sempre in questa pagina la cornice in alto rende conto dei titoli più importanti di questo particolare settore narrativo, vale la pena rendere conto di un autore pugliese che proprio scrivendo di operai e fabbrica ha in questi giorni ottenuto un bel successo: stiamo parlando di Francesco Dezio (Via da qui – pp. 90 – Euro 5 – zerozerosud), selezionato insiame ad altri sette scrittori per leggere le sue opere all’interno delle manifestazioni letterarie che ogni anno si svolgono a Reggio Emilia nel mese di ottobre.
Francesco Dezio, dopo aver esordito in un’antologia per giovani scrittori under 25 intitolata “Sporco al sole”, ha recentemente pubblicato “Via da qui”. Di che cosa si tratta ce lo racconta proprio l’autore.
Cominciamo provando a dare qualche breve nota sull’opera.
“Si tratta di una raccolta che non ha ancora la pretesa di essere un vero e proprio romanzo, quanto un modo per mettere insieme materiali raccolti nel corso di questi ultimi anni. E’ il resoconto della mia esperienza di operaio metalmeccanico in una fabbrica pugliese. Preferisco non dire quale. Anche perché la mia narrativa conosce una profonda rielaborazione in chiave fantastica. La realtà  della fabbrica è un punto di partenza, ma solo un punto di partenza. La mia elaborazione interviene sul narrato fino al punto da renderlo irriconoscibile”.
E qui abbiamo già  una prima notazione. Il fatto di avvicinarsi a un tema così crudo non costituisce in un certo qual modo un obbligo a rispettare il realismo?
“No. Intanto non è accaduto, come si può vedere leggendo il libro. Ma poi non credo che per parlare della fabbrica bisogna necessariamente cadere nel realismo. Anche perché alla base della mia scelta non ci sono ragioni ideologiche. Intendiamoci, io sono molto attento alla realtà  della fabbrica. Ha fatto parte della mia vita, per un certo periodo. Però se ho scelto di parlare di questo tema è stato solo perché credo che ogni scrittore dovrebbe parlare delle cose che conosce bene. Di quelle che vive. E’ la grande lezione della letteratura”.
La scelta di parlare di fabbrica e della realtà  operaia, seppure nel modo in cui ha scelto di farlo lei, è tanto più stupefacente dopo averla conosciuta e aver saputo anche dei suoi trascorsi artistici. Che direi quanto meno interdisciplinari. Vogliamo provare ad elencarli?
“Io ho cominciato come pittore. Con una vena surrealista e iperrealista. Per intenderci io mi ispiravo a Magritte, Dalì, a Bacon. Poi con la pittura ho chiuso, anche se ammetto che in questo ultimo periodo mi piacerebbe ricominciare. Lasciata la pittura mi sono dedicato alla musica. Con una band musicale abbiamo creato una performance: il gruppo si chiama Bread Pitt, una storpiatura del nome dell’attore americano, e propone una lettura cantata di alcuni miei testi. Sì, l’interdisciplinarietà  mi attrae molto. Però nonostante questo, pensandoci, paradossalmente mi manca proprio un’arte che invece ha segnato quasi tutti i narratori: il cinema. Non credo di essere molto segnato dal cinema. Non ti so spiegare perché, ma non ci sono echi cinematografici nella mia scrittura”.
Esistono invece dei riferimenti letterari molto precisi. Lei ha una scrittura frammentata, sincopata. Possiamo provare a indicare alcuni degli autori che più ama?
“Direi che i tre autori ai quali devo particolarmente qualcosa sono Céline, Bret Easton Ellis. E poi naturalmente il padre di molti narratori della mia generazione, Raymond Carver. Ecco, soprattutto Carver mi ha insegnato ad andare direttamente allo scopo. A non sprecare parole, cercare di raggiungere il proprio obbiettivo narrativo con la massima chiarezza. Da Ellis l’attenzione per certe analisi della società . Perché, ripeto, quello che mi interessa è dipingere uno spaccato sociale, ma passando attraverso la psicologia dei singoli individui”.
In Italia esiste una scuola molto forte di narratori che si sono ispirati ala realtà  operaia, in modo più o meno realistico. Da “Tre operai”, di Carlo Bernari, che ha un po’ fatto da battistrada nel dopoguerra, abbiamo avuto tappe importanti. In testa citavamo Balestrini, ma non si può dimenticare Volponi ed il pugliese Di Ciaula, con cui in un certo senso lei non può evitare di mettersi in relazione. Allora, cominciamo da Di Ciaula: quali sono le differenze maggiori fra voi due, a suo modo di vedere?
“Direi che a me interessa soprattutto vedere le persone inserite in un certo ambiente. Io sono per lo studio psicologico. Mentre “Tuta blu” aveva più riferimenti sociologici. E’ un romanzo molto interessante, ma credo che avesse obbiettivi diversi dai miei. Comunque cercava di comprendere una evoluzione sociale. A me quello che interessa invece sono le reazioni di una persona immersa in un determinato ambiente. Il quadro sociologico arriva dopo. Di riflesso. Tanto è vero che non escludo, per il prossimo lavoro, di occuparmi di altri ambienti lavorativi. Non più della fabbrica. O forse sempre della fabbrica, ma parlando di quadri”.
Ma lei conosceva le opere di Volponi, Balestrini, dello stesso Di Ciaula?
No. Devo dire che le ho lette dietro consiglio di alcuni critici dopo aver pubblicato il mio romanzo. Ed è stato impressionante trovare una serie di analogie ma, fortunatamente, anche tantissime differenze. Io ho apprezzato molto per esempio, proprio il lavoro di Balestrini. E la cosa divertente è che tra i selezionatori di Reggio Emilia c’è anche lui. Balestrini è uno di coloro che mi vogliono a Reggio Emilia, insieme ad un’altra scrittrice che amo molto e con la quale sento di avere delle affinità : Silvia Ballestra”.
Eppure l’impressione che proviene dalla sua scrittura è molto diversa, se prendiamo come riferimento questi autori. Lei da l’idea di essere molto più spontaneo. La scrittura di Balestrini, per esempio, si vede che nella sua apparente libertà  e assenza di regole è poi molto controllata.
“Ma anche la mia. Quella che lei ha avuto è solo una impressione. Io controllo la mia scrittura con una pazienza enorme. Leggo, rileggo, limo. Non ci deve essere una sola parola in più”.
Ci può dare qualche anticipazione sulla sua prossima opera?
“E’ ancora presto, direi. Per ora sono concentrato su quello che farò a Reggio Emilia. E’ certo che anche la prossima opera parlerà  di lavoro subordinato. Ma, come ho già  detto, non è escluso che si tratti di quadri, anche se di livello inferiore. Per ora sono molto concentrato sulla preparazione di questo atto di presenza a Reggio Emilia”.