IL MASSACRO DELLA CONOSCENZA

IL MASSACRO DELLA CONOSCENZA
di Barbara Spinelli

10 novembre 2002

L’ARTICOLO di Oriana Fallaci sulle manifestazioni no global di Firenze è stato interpretato in vari modi, nei giorni scorsi. Alcuni si sono adirati, convinti che la giornalista avesse perso il senno e fosse addirittura un caso clinico.

Altri l’hanno ardentemente approvata, per la condanna inflessibile che nella Lettera aperta ai fiorentini colpisce indiscriminatamente i no global, i pacifisti che hanno concluso il Social Forum sfilando nel capoluogo toscano, e qualsiasi forma di disubbidienza civile. C’è chi ha parlato di «parole sante», di «bellissima lettera».

C’è perfino chi – in Alleanza Nazionale – l’ha paragonata a Céline: per il linguaggio rude della Lettera, e per la vocazione della Fallaci a essere «estrema, categorica, solitaria». In realtà  non c’è nulla di solitario, nella prosa della giornalista e nel suo rifiuto categorico di un movimento nel quale altro non si vede che l’appetito di imbrattare monumenti e di sconquassare le nostre belle città , e da molti punti di vista Oriana Fallaci è l’esatto opposto di Louis-Ferdinand Céline.

Non è solitaria, bensì cammina allo stesso passo del gregge, o di quello che comunemente viene chiamato Zeitgeist, spirito del tempo. Non è insolente o irrispettosa, come forse vorrebbe, ma è condiscendente, se non corriva verso le opinioni dei più.

Per naturale inclinazione, la sua prosa si rimette di buon grado al volere e al parere di chi oggi governa i paesi occidentali: ne sposa non solo le forze ma anche le fobie e le fragilità , aderisce alle loro chiusure, alla mediocrità  dei loro irrigidimenti, alla loro ottusa arrendevolezza verso i prefabbricati convincimenti delle maggioranze silenziose.

E’ solo più esplicita e insistentemente oltranzista di coloro che avendo in mano le redini del comando usano, se necessario, prudenza. Esagera un po’ di più, ma è in sintonia con essi e si riscalda al loro contatto telefonando confidenzialmente ai potenti. Parla come ha sempre parlato, a cominciare dal secolo scorso, l’estremismo del centro.

Gli stereotipi sono la sua molla recondita, e il raccapriccio provato di fronte a qualsiasi tipo di critica è il suo movente. Ogni manifestazione di dissenso, ogni movimento di emancipazione è guardato con sospetto, e trasformato in mera questione di ordine pubblico, in mera patologia criminale.

Da questo punto di vista non c’è nulla di particolarmente nuovo, nella condotta dei responsabili occidentali come nella prosa di Oriana Fallaci: ancora una volta non si guarda al perché delle proteste o della disubbidienza civile o anche delle azioni violente, ma si redigono bollettini degni di un commissariato, che valgono per le più diverse circostanze e sono contrassegnati dall’uniformità .

Sono inflessibili sulla questione della legalità , com’è giusto, ma del tutto ciechi di fronte a quel che accade nel mondo. In passato abbiamo già  visto come vanno le cose, quando le forze moderate non cercano di capire e soprattutto di distinguere: un’unica orda barbarica è alle porte – questo il grido d’allarme – e nulla distingue l’indipendentista ceceno minacciato da un genocidio dal terrorista kamikaze che abbatte le torri di Manhattan, il manifestante che provoca lo scontro da quello che s’interroga sul futuro dell’Europa e della Terra.

Seymour Martin Lipset chiamava fascismo del centro questa vocazione all’immobilità  del pensiero e alla fissità  ripetitiva delle azioni di contrasto, assai forte nelle classi medie: il termine risale al 1960, quando il sociologo americano scrisse il suo Political Man.

Nei due secoli scorsi fu così che i moderati fecero bancarotta: la questione sociale che aveva fatto apparizione nell’ ”˜800 fu trattata come mero problema di ordine pubblico, non come un male che andava curato alle radici, e la questione fu fatta marcire finché degenerò in due totalitarismi.

Altra risposta non si trovò, se non quella totalitaria, alle domande che lungo più generazioni avevano tormentato la società . Quel che caratterizza l’estremista del centro è l’adesione al luogo comune, e anche per la Fallaci lo stereotipo è punto d’appoggio essenziale.

Come dice il vocabolario, stereotipo è l’opinione rigidamente precostituita e generalizzata, che non viene acquisita sulla base di una esperienza diretta e che prescinde dalla valutazione dei singoli casi. Chi coltiva simili opinioni sa fare le guerre e le incursioni poliziesche, ma non sa costruire le paci e la convivenza tra individui diversi.

Sa ricorrere al potere delle armi, ma non a quello della persuasione e della politica, cui gli americani danno il nome di softpower, potere morbido (il giornalista Thomas Friedman parla di «armi di attrazione di massa», che mancherebbero all’Occidente nella lotta contro le armi di distruzione di massa).

Per il propagatore di stereotipi il terrorismo è un unico magma mondializzato, che non possiede radici locali e che non può mai nascere, come in Cecenia, da operazioni di sterminio e di colonizzazione.

Le situazioni locali e gli stermini non interessano in realtà  né i pacifisti né a ben vedere la Fallaci, e da questo punto di vista il giudizio più calzante sulla lettera della giornalista è quello del segretario del partito radicale, Daniele Capezzone: «Come Casarini ha la tuta bianca, lei ce l’ha di un altro colore. Ma sempre di tuta si tratta».

Tutto questo ha poco a vedere con Céline, che di certo fu un ultrà  del fascismo antisemita ma che esecrava lo stereotipo, le uniformi-tute, le città  trasfigurate in sigillati musei. Non basta esagerare le frasi, per fare un poeta maledetto o un grande pensatore scabroso.

Il preciso giudizio espresso dall’esponente del partito radicale non è casuale. I radicali sono i soli che hanno preso sul serio i movimenti no global, contestando le loro sordità  a quello che effettivamente accade nel mondo, criticando aspramente la ripetitiva fissità  delle loro opinioni, ma entrando in discussione con essi.

I radicali sono intransigenti sulla legalità , ma cercano di capire i movimenti e di rispondere alle loro domande sul presente e il futuro. Guardano quel che succede in Europa e ai confini dell’Europa, e vedono che ci sono situazioni in cui la lotta al terrorismo non può essere generalizzata. Lo osservano, e scoprono che molto più micidiale della Coca-Cola è, al momento attuale, la politica di Putin nel Caucaso.

E’ veramente un terrorista – come sembra credere Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera – chi attrae l’attenzione del mondo sul genocidio che è in corso in Cecenia? Come avremmo chiamato l’ebreo che per denunciare l’esistenza dei Lager avesse preso in ostaggio gli spettatori di un teatro nella Germania nazista?

E se è un terrorista da combattere con la forza dello Stato, perché è stato spinto da questo stesso Stato a divenire tale? Ieri a Firenze e domani a Bruxelles – dove ricorderanno il disastro ceceno ai margini dell’incontro fra Putin e l’Unione europea – i radicali hanno mostrato e mostreranno di avere una loro idea della mondializzazione.

Contrariamente ai no global non sono ostili all’unificazione dei mercati e anzi chiedono che la globalizzazione si intensifichi: che inglobi anche la politica e i diritti degli individui, dei popoli. Non i diritti che si possono solo acclamare senza poterli garantire, ma il diritto elementare a non esser privati con la violenza del proprio alloggio, a non esser torturati, a non esser soppressi come etnia e città  aperta.

A questi diritti inalienabili sono indifferenti gran parte dei no global e anche Oriana Fallaci. Per questo danno l’impressione di indossare la medesima tuta – la tuta del conformismo estremista – sia pure di colore diverso. Ha detto un anno fa a Roma Omar Khambiev, ministro della Sanità  del governo ceceno: «Da noi è in corso un massacro di vite umane.

Ma da voi è in corso un massacro di informazione, di conoscenza. E se non ci fosse questa strage da voi, si sarebbe già  potuta impedire quella che è in corso da noi». Questa potrebbe essere una buona base di partenza, per cominciare a capire il mondo in cui viviamo e la sua peculiare globalizzazione, che unifica tutto tranne i diritti della persona e la conoscenza delle loro violazioni.

Che spinge gli occidentali a chiudersi nella loro cittadella fortificata, con strumenti e pensieri completamente insufficienti. Perché a forza di generalizzare diveniamo partecipi di quel massacro dell’informazione e della conoscenza, grazie alle quali avremmo forse potuto evitare i massacri di popoli, o tassi eccessivi di disordine nelle nostre città .

Una volta omologati gli oppositori, e visti in blocco come barbari, non resta che il ricorso alla guerra o alla polizia. Non resta che la ricostruzione dei loro tratti fisionomici, che la descrizione paternalistica dei cibi o dei vestiti che prediligono, che lo studio criminologico o etnologico dei loro stili di vita, delle loro abitudini psicologiche, delle loro tare congenite.

Ogni oppositore o terrorista è un serial killer, nei confronti del quale non c’è altra risposta se non il cosiddetto profiling, l’attività  che lo definisce e identifica. Televisori e giornali usano questo linguaggio forense-criminologico, anche quando parlano dei no global. Sono giorni e giorni che non fanno altro che profiling. Naturalmente è vero quel che dice Giovanni Sartori: l’onere della prova spetta ai no global, se si considerano le loro passate illegalità .

Sono loro a dover dimostrare di poter manifestare pacificamente. Ma quel che spetta a Berlusconi o alla Fallaci è l’uso sapiente della ragione, e la rinuncia alla nefasta profezia che in segreto aspira ad auto-realizzarsi. Non è prevenzione, quando la Fallaci invita a chiudere i negozi per lutto, o quando il presidente del Consiglio dichiara, a Trieste, che «le devastazioni certamente verranno da alcuni dei partecipanti» al Social Forum.

E’ l’azione pre-crimine di Minority Report, che immagina una realtà  e immaginandola la crea. Non è fantascienza, a quanto pare: anche noi abbiamo i nostri precog, le nostre Erinni precognitive che sentono arrivare il delitto prima ancora che esso sia stato pensato. Vedono ammassarsi il crimine lì dove crimine non c’è, e non lo vedono lì dove popoli interi lo stanno subendo.