GRANELLO DI SABBIA (n°89)

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Indice degli argomenti

La guerra è scoppiata.

1 – Il governo Usa è fuori legge
di ATTAC Italia
La guerra contro l’Iraq è iniziata. Il governo statunitense disprezza le
risoluzioni dell’Onu, attacca l’Iraq e si sbarazza definitivamente di
sessant’anni di sforzi mirati a costruire una società  internazionale basata
sul diritto, sulla giustizia internazionale e non sulla forza. Il governo
Bush si è messo quindi fuori legge e si pone fuori dalla comunità 
internazionale.

2 – Buttiamo la guerra fuori dalla storia
di Nella Ginatempo (Bastaguerra!)
Se non fermeremo questa guerra nelle sue macchine di morte e nella sua
catena di sterminio, l’abbiamo tuttavia fermata nella testa di milioni di
persone, l’abbiamo fermata come sistema plausibile, accettabile e normale di
governo del mondo. L’abbiamo fermata in

3 – Perché un Forum alternativo sull’acqua?
di ATTACQUA
Il Forum Alternativo Mondiale dell’Acqua rappresenta una tappa centrale nel
percorso verso la costruzione di un altro mondo possibile.

4 – Euro-Maghreb tra due acque
di Smail Goumeziane
Il partenariato euro-maghrebino è oggi tra due acque. Sarà  trasportato da un
torrente d’odio, d’intolleranza e di estremismi di tutti i generi? O sarà  al
contrario portato dai flutti della libertà , della tolleranza e del progresso
per tutti? Felice colui che è in grado, oggi, di rispondere con certezza.
(.)Traduzione a cura di Daniela Massabò et Francesca Alongi

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20 marzo 2003 E’ SCOPPIATA LA GUERRA
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La coalizione guidata dagli Stati Uniti d’America ha iniziato i
bombardamenti sull’Iraq.
Bush, con un discorso alla nazione, ha detto ”Continueremo ad operare per
la pace e alla fine vinceremo e predomineremo!”. Un messaggio inquietante e
allucinante al quale dobbiamo rispondere nella maniera più netta e decisa.

FERMIAMOCI! FERMIAMO IL PAESE!
– Promuoviamo iniziative di opposizione alla guerra
-Partecipiamo allo sciopero generale contro la guerra

Trasformiamo il “Credere, obbedire, combattere” che ci viene propinato, in:
“DUBITARE, DISOBBEDIRE, DISERTARE”

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1 – Il governo Usa è fuori legge
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di ATTAC Italia

La guerra contro l’Iraq è iniziata.

Il governo statunitense disprezza le risoluzioni dell’Onu, attacca l’Iraq e
si sbarazza definitivamente di sessant’anni di sforzi mirati a costruire una
società  internazionale basata sul diritto, sulla giustizia internazionale e
non sulla forza. Il governo Bush si è messo quindi fuori legge e si pone
fuori dalla comunità  internazionale.

Attac Italia è solidale con tutte le forze e i movimenti che, negli Stati
uniti moltiplicano le azioni di protesta contro la guerra e con le centinaia
di Comuni (tra i quali quello di New York) e Contee che hanno votato
risoluzioni in questo senso, con tutto il movimento nonviolento e pacifista
Usa.

Attac Italia esprime solidarietà  al popolo iracheno, già  sottomesso ad una
odiosa dittatura, vittima dei bombardamenti e dei combattimenti. George Bush
e i suoi figuranti José Maria Aznar e Tony Blair si assumono la
responsabilità  storica di una catastrofe umanitaria.

Attac Italia ritiene indispensabile la convocazione di una Assemblea
generale straordinaria delle Nazioni unite per condannare il ricorso alla
forza senza mandato Onu e decidere le misure per opporsi alla spartizione
del bottino di guerra.

Attac Italia chiede ai suoi aderenti e simpatizzanti ad unirsi alle
manifestazioni organizzate per fermare la guerra in ogni città , in ogni
strada.

Dolore, paura e rabbia. Ma una sola certezza: nel mondo il dissenso a questa
guerra è maggioritario, anche nei paesi che la sostengono, dall’Australia,
al Canada, dal Giappone, al Salvador. Fermiamoli!

Non lasciamoci in pace chi fa la guerra.

Comunicato del Consiglio Nazionale di Attac Italia Italia, 19 marzo 2003

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2 – Buttiamo la guerra fuori dalla storia
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di Nella Ginatempo (Bastaguerra!)

Primo: la speranza.
Se non fermeremo questa guerra nelle sue macchine di morte e nella sua
catena di sterminio, l’abbiamo tuttavia fermata nella testa di milioni di
persone, l’abbiamo fermata come sistema plausibile, accettabile e normale di
governo del mondo. L’abbiamo fermata in Europa, anche in alcune sedi
istituzionali e governi presso cui gli interessi materiali della vecchia
Europa e delle sue multinazionali si sono intrecciati con la gigantesca
pressione dei popoli che hanno richiesto di fermare questa guerra. In un
certo senso, anche se appare paradossale alla vigilia dei bombardamenti, in
un certo senso la guerra è finita. E’ l’opposto di ciò che dice Bush ‘the
game is over’ cioè il gioco è finito ed oggi comincio la mia guerra
imperiale. E’ la guerra imperiale che è finita perché oggi finisce l’
egemonia USA sul mondo, finisce la loro possibilità  di organizzare il
consenso e la sudditanza ed anche ‘vedrete- le regole imposte della
ingiustizia economica del mondo. Oggi invece comincia una nuova partita,
quella di un movimento mondiale che si oppone a quell’unico ordine mondiale
che vuole imporre neoliberismo e guerra permanente globale. Oltre questo
infame sterminio programmato contro il popolo dell’Iraq, dobbiamo
organizzare organizzare organizzare la resistenza di lunga durata alla
guerra permanente . Il nostro obiettivo va oltre perché siamo l’unico
soggetto politico mondiale che ha la speranza. La speranza che un altro
mondo è possibile.

Secondo: l’organizzazione.
Poiché si tratta di attrezzarsi nel lungo periodo, dobbiamo crederci,
reagire allo scoramento, rimanere collegati con le sedi del movimento,
mantenere l’unità  nelle lotte tra i diversi soggetti di movimento, tenere
sempre legata l’analisi della guerra e l’iniziativa contro la guerra alla
analisi del contesto globalizzazione e diritti, la politica all’etica all’
economia, la guerra militare alla guerra economica e sociale. Organizzarsi
significa fare il lavoro delle formiche, non solo quello delle cicale,
significa lanciare ad esempio le campagne di boicottaggio contro le
multinazionali angloamericane del petrolio (Esso-Exxon Mobil; Texaco;
Chevron; BP-Amoco). Lottare contro gli interessi petroliferi italiani (vedi
la questione dell’ENI e dei suoi contratti del dopoguerra in Iraq).
Significa riprendere la campagna di boicottaggio delle banche armate e delle
più grandi multinazionali dell’economia di guerra. Significa sostenere la
lotta contro EXA per il disarmo economico. Significa rilanciare la campagna
di obiezione fiscale alle spese militari. Organizzarsi significa costruire
forme nuove di resistenza, guardando alle basi militarti, ai loro depositi
di armi nucleari e a tutti gli ordigni di morte (vedi anche la proposta di
una vera inchiesta parlamentare sulle basi militari e sui cosiddetti accordi
secretati). E’ tutto da studiare, dal boicottaggio alle azioni dirette
nonviolente sul territorio alle varie forme di sabotaggio. Ma cominciamo da
subito, con l’organizzazione della giornata delle basi il 22 e 23 marzo. Ci
sono le mobilitazioni a Sigonella e ad Aviano, ma anche a Salto di Quirra in
Sardegna e al comando navale di Taranto e all’aeroporto militarizzato di
Fiumicino a Roma. C’è solo il caso di ricordare che, se prima del 22 marzo
gli infami bombardieri faranno piovere morte su Baghdad, allora quel 22
marzo diventa la giornata nazionale di mobilitazione con le manifestazioni
nelle città . Non sono brava in organizzazione, ma darò il mio contributo.
Intanto credo che sarebbe necessario che si riunisse il gruppo di continuità 
FSE subito dopo le prime mobilitazioni contro la guerra e si desse una mossa
organizzativa insieme al gruppo di lavoro Bastaguerra.

Terzo: vogliamoci bene.
Smettiamola con le competizioni le risse, la solita roba testosteronica.
Teniamoci per mano in questi giorni tristi.Che ciascuna e ciascuno sia
speranza per l’altro, l’altra. Cobas, disobbedienti, lillipuziani,
femministe, cattolici, sindacalisti, rifondaroli, attacchini, ambientalisti
e chissà  quanti altri me ne scordo, non so pregare, ma se sapessi pregare
questa sarebbe una preghiera. Per quella donna pacifista di 23 anni
massacrata dalle ruspe di Sharon in Palestina poco fa, per Rosa Luxemburg,
assassinata dalla socialdemocrazia tedesca dopo la prima guerra mondiale (e
quante altre se n’è perse !), vi prego di ascoltare il messaggio di tante
donne che lottano per la pace, che urlano FUORI LA GUERRA DALLA STORIA , che
si richiamano all’unità  del movimento, oggi più che mai bene prezioso.
Martedì dalle ore 13 a oltranza saremo a Montecitorio, con la ferma volontà 
di fermare almeno la partecipazione italiana alla guerra, così i treni e i
porti e gli aeroporti della morte. Ma quanti saremo se non c’è uno scatto
del cuore, oltre che della mente, verso l’unità  e la compattezza tra tutti?

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3 – Perché un Forum alternativo sull’acqua?
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di ATTACQUA

Il Forum Alternativo Mondiale dell’Acqua rappresenta una tappa centrale nel
percorso verso la costruzione di un altro mondo possibile.

Riflettere sull’acqua e sulle problematiche legate significa oggi
confrontarci su molte tematiche, altrettanto cruciali. Parlare di acqua
significa parlare di guerre, le attuali e quelle future, di distribuzione e
monopoli di potere, di democrazia, di politiche e pianificazioni
industriale, di modelli di produzione agricola, di rapporto
uomo/donna-ambiente, gestione ed auto-gestione del territorio. Il diritto di
accesso all’acqua diviene per questi motivi il paradigma di tutti i diritti
di cittadinanza globali, negarlo o limitarlo vuol dire sancire l’
allontanamento definitivo dei cittadini e delle cittadine dalla gestione e
dalla consapevolezza dell’acqua, vuol dire sradicare il concetto stesso di
bene comune.
L’Acqua, l’elemento vitale più importante nel ciclo umano, ambientale e
sociale, diviene oggi però una merce sottoponibile alle leggi del libero
scambio con l’unico scopo dichiarato dell’accumulazione del maggior
profitto. Dai negoziati del Wto alle politiche della Banca Mondiale e delle
istituzioni sopranazionali, dagli interessi delle grandi multinazionali alle
normative nazionali e locali, le scelte dei potenti della terra applicano i
paradigmi del liberismo economico all’acqua, necessità  e non più diritto,
merce e non più bene comune.
Opporci a questi processi e promuovere politiche solidali e partecipate per
la gestione del bene acqua diviene la base indispensabile per ripensare un
ciclo produttivo, sociale e di rapporto con il territorio sinceramente
alternativo. Disegnare insieme una cultura che ponga il diritto all’acqua al
centro di processi di cooperazione e costruzione della pace dal basso, che
rivaluti il rispetto per i beni comuni anche in quanto simboli e linguaggi
di vita e di integrazione sociale è uno degli obiettivi non più rimandabile
dei movimenti per l’acqua.
La battaglia per il diritto all’acqua è inoltre una battaglia globale che
attraversa tutte le popolazioni del pianeta. L’universalità  della
problematica permette la creazione di reti di interazione sociale che vanno
favorite attraverso l’apertura e l’avvicinamento di tutti i cittadini e
cittadine.
Riteniamo che il Forum di Firenze costituisca un passaggio prezioso nel
percorso di allargamento e radicamento della battaglia per l’acqua in cui i
movimenti sociali svolgono un ruolo fondamentale di raccordo tra le
problematiche locali e quelle globali e di necessario monitoraggio attivo
sulle scelte di governi e istituzioni.

Manifestare per la pace e contro la guerra, per i diritti sociali e del
lavoro, per i diritti dei migranti e dei popoli oppressi significa anche
battersi per una politica di diritto all’acqua e per la sua qualità . Si
tratta semplicemente di sancire il diritto ad una buona vita per tutti i
popoli della terra e per il rispetto dell’ambiente e del suo ecosistema.

Vi aspettiamo a Firenze il 21 e 22 marzo.

Programma e informazioni le trovate su:
http://www.cipsi.it/contrattoacqua/forum-acqua/it/index.htm

Il contributo di ATTAC al Forum:
http://www.attac.org/italia/in%20italia/associazione/attacitalia12.htm

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4 – Euro-Maghreb tra due acque
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di Smail Goumeziane

Il partenariato euro-maghrebino è oggi tra due acque. Sarà  trasportato da un
torrente d’odio, d’intolleranza e di estremismi di tutti i generi? O sarà  al
contrario portato dai flutti della libertà , della tolleranza e del progresso
per tutti? Felice colui che è in grado, oggi, di rispondere con certezza.
L’Europa, traumatizzata dalle atrocità  commesse nel corso dei due più grandi
conflitti mondiali della storia umana, ha saputo, in mezzo secolo, vincere
le sue antiche paure, reali o supposte. Ha allontanato lo spettro della
peste nera e, con l’abbattimento del muro di Berlino, annientato il pericolo
rosso. Ha investito senza paura il vasto mercato cinese, che fino a pochi
anni fa era antro e rifugio del pericolo giallo.
Tuttavia, da vari anni e più particolarmente dopo l’11 settembre 2001, delle
nuove paure sorgono da ogni parte. Un nuovo pericolo per il mondo
occidentale sarebbe in agguato. Il pericolo verde si sarebbe insidiosamente
infiltrato in tutta l’Europa dalla parte del suo lato sud, installandosi più
precisamente nelle periferie verdi delle grandi metropoli europee. Ormai,
per l’occidente in generale e per l’Europa, gli Arabi, e tra loro i
maghrebini, sarebbero i nuovi nemici planetari. Questo, in ogni caso, è ciò
che viene comunicato da tutta una serie di pretesi specialisti del mondo
arabo, da certi organi di stampa, e da una quantità  di uomini politici di
destra ed estrema destra che ci rinviano all’epoca lontana, che pensavamo
finita, delle crociate.
Da parte sua, il Maghreb, che non ha ancora cicatrizzato tutte le piaghe
aperte dalle avventure coloniali e dalla violenza del processo d’accesso
alle indipendenze, si spaventa allo stesso tempo dell’amalgama che viene
fatta dell’idra terrorista internazionale con l’Islam e i credenti, e delle
condizioni non democratiche che accompagnano i dolorosi programmi di
aggiustamento strutturale che gli sono imposti. In queste condizioni, è
ancora giudizioso continuare la costruzione di uno spazio euro-maghrebino?
In quali condizioni e a quale fine? Tentiamo qualche risposta.

1. IN MEZZO AL FOSSATO

Il partenariato euro-maghrebino sembra apparentemente sulla buona strada.
Tre paesi del Maghreb (Tunisia, Marocco, Algeria) hanno firmato degli
accordi di adesione alla zona di libero scambio che sarà  istituita con l’
Unione Europea nel 2012.
Eccoci ormai al centro del fossato. Con ciò, le condizioni economiche,
sociali e politiche prevalenti in Europa e in Maghreb permetteranno di
raggiungere questo obbiettivo? Vediamo più da vicino la situazione dei
diversi attori.

1.1 – Un’ Europa economica unita, che si allarga all’Est

– Il peso dell’Europa economica
L’Europa dei 15 è ormai realizzata, con l’istituzione della moneta unica.
Grazie a questa, l’Europa è diventata una grande potenza economica, capace
di rivalizzare con gli Stati Uniti e il Giappone.
Con una popolazione di 370 milioni di abitanti, un PIL (prodotto interno
lordo) annuale dell’ordine di 8.000 miliardi di euro, ossia circa 22.000
euro/abitante, delle esportazioni che rappresentano il 40% delle
esportazioni mondiali, l’Europa può essere fiera delle sue riuscite
economiche. Grazie ad esse, l’Europa rappresenta il 23,1% del PIL mondiale,
contro il 24,1% degli Stati Uniti.

– L’allargamento all’Est
Con la caduta del muro di Berlino, l’Europa si è decisamente rivolta verso i
paesi del vecchio blocco sovietico. Ciò si è da subito tradotto in
importanti flussi di capitale verso questi paesi. Nel 1994, questi flussi
erano già  due volte superiori a quelli consacrati all’insieme dei paesi del
sud Mediterraneo, benché gli scambi dell’Europa con i paesi dell’est fossero
solo la metà  degli scambi con il sud del Mediterraneo, e la popolazione
migrante mediterranea fosse sei volte superiore a quella dei paesi dell’est.
Questa tendenza s’è accelerata con la volontà  manifesta d’integrare una
parte importante di questi paesi nell’Unione Europea. Da oggi al 2004, una
decina di loro dovrebbero unirsi ad essa per costituire un’Europa dei 25.

– Delle relazioni molto squilibrate con il Maghreb
Di fronte a questa concorrenza, l’apertura dell’Europa verso il Maghreb è
rimasta più che prudente e rinchiusa in essenziale in una logica
commerciale, peraltro fondamentalmente squilibrata. Le esportazioni dell’
Europa verso il Maghreb rappresentano solo il 2% delle sue esportazioni
totali. Al contrario gli scambi del Maghreb con l’Europa rappresentano quasi
il 65% dei suoi scambi. Per queste ragioni, l’Europa è sempre il primo
fornitore e il primo cliente di un Maghreb popolato di 75 milioni di anime.
Le importazioni maghrebine sono principalmente costituite di prodotti
manufatti, di beni di consumo, di prodotti alimentari e sanitari. Da parte
loro, le esportazioni in direzione dell’Europa concernono essenzialmente
materie prime (idrocarburi, fosfati e altri minerali), frutta, verdura e
qualche prodotto industriale (tessuti e pellami). Di fatto la zona
maghrebina, e oltre ad essa il sud del Mediterraneo, costituisce la prima
zona di eccedenza commerciale dell’Europa.
Al di là  degli scambi, bisogna tuttavia notare l’esiguità  degli investimenti
europei in Maghreb. Questi rappresentano meno del due per cento degli
investimenti dell’Unione nel mondo, cioè 15 volte meno degli investimenti
degli Stati Uniti in Messico, o ancora 30 volte inferiori a quelli del
Giappone nel sud-est asiatico. Ugualmente, la cooperazione finanziaria dell’
Europa è piuttosto magra. A titolo d’esempio, i flussi finanziari previsti
tra il 1995 e il 1999 per tutta la regione sud mediterranea nel programma
Meda 1 erano di cinque miliardi di dollari, o ancora un miliardo di dollari
all’anno, ossia in media 90 milioni di dollari per paese. In realtà , la
maggior parte di questi fondi sono andati, geostrategia oblige, verso la
Turchia e l’Egitto. Per un paese come l’Algeria questi fondi rappresentano
appena qualche giorno di produzione di petrolio della Sonatrach, l’impresa
nazionale degli idrocarburi.

– Europa fortezza o Europa delle libertà ?
Questa freddezza dell’Europa in materia d’investimenti e di capitali si
duplica da vari anni a questa parte con una politica molto restrittiva in
termini di flussi migratori in provenienza dal Maghreb. Per molto tempo, la
Libia è stata colpita dall’embargo, l’Algeria chiusa nella sua violenza
interna e il suo popolo messo in quarantena. Tutti i maghrebini uscenti sono
sottomessi ormai a delle misure draconiane di controllo alle frontiere e
alla procedura del visto. Questo è dato col contagocce. Tuttavia, la
popolazione straniera in Europa non sorpassa il 4 – 5% della sua popolazione
totale. In questo numero, la popolazione maghrebina non sorpassa il 15%
della popolazione straniera, cioè meno dello 0,70% della popolazione totale
europea. Anche se si dovessero aggiungere a queste cifre i 500.000
maghrebini in situazione irregolare e i circa due milioni dalla doppia
nazionalità , questo rappresenterebbe al più l’ 1,3% della popolazione totale
europea. Quindi non è tanto la quantità  dei migranti maghrebini che pone la
questione, quanto l’amalgama e le paure che si sviluppano attorno a queste
popolazioni, alla loro religione – l’Islam – e al terrorismo integrista. E’
proprio la dimensione “securitaria” dell’immigrazione maghrebina che conduce
l’Europa a dimenticare di essere l’Europa delle libertà . Risultato, essa si
barrica come una fortezza. Il muro di Berlino sarebbe in qualche modo
sostituito col “muro del Mediterraneo”.

1.2 – Un Maghreb in frantumi, conflittuale e senza reali libertà .

– Lo scacco dell’integrazione regionale
Di fronte a quest’Europa potente, unita, orientata all’est e fredda nei
riguardi del suo lato sud, il Maghreb appare ben debole. Dalle
indipendenze, esso è composto da stati senza grandi relazioni tra di loro.
Atomizzato, marcato dall’esiguità  dei mercati nazionali, e benché largamente
aperto verso l’esterno (più del 35% in media), il Maghreb si è compiuto con
regole di funzionamento autoritarie e amministrative, che agivano più spesso
in modo dispersivo e di volta in volta sulla scena economica mondiale, gli
occhi fissi al nord. Risultato, gli obbiettivi più e più volte reiterati di
costruzione di un’unità  doganiera, e poi di un mercato maghrebino, non sono
stati raggiunti. Gli scambi tra maghrebini sono insignificanti (meno del 5%
dei loro scambi globali, compresi quelli informali), ed ancor più lo sono
gli investimenti. Cosa dire dei flussi di persone che continuano ad
orientarsi verso i paesi europei malgrado la riduzione drastica dei visti?

– I conflitti inter maghrebini.
Questa situazione riflette al massimo lo scacco di un’integrazione
maghrebina forzata, senza l’implicazione delle popolazioni, sottomessa alle
vicissitudini politiche del momento, e non per dei motivi veramente
economici e sociali. Senza coesione, avendo sbagliato tutti i suoi tentativi
d’unificazione, il Maghreb non ha ancora realizzato questa speranza che la
creazione dell’UMA (Unione del Maghreb Arabo) nel 1989 lasciava scorgere
alle popolazioni dei cinque paesi. Dopo vari decenni d’indipendenza,
nonostante numerosi vantaggi (storia, geografia, risorse, lingua, religione
e cultura comuni) e nonostante tutta una fraseologia dell’unione, della
fraternità  e del destino comune, i paesi del Maghreb restano marcati da
rivalità  di ogni sorta (politiche, ideologiche, economiche) attizzate dal
conflitto del Sahara Occidentale e allo stesso tempo dall’emergere brutale
dell’islamismo e del terrorismo in tutta la regione, principalmente in
Algeria.

– Gli scoppi di violenza
Per queste ragioni, ma anche a causa del cattivo sviluppo che hanno
conosciuto questi paesi e dei programmi di aggiustamento strutturale che
sono stati loro imposti, le popolazioni del Maghreb hanno subito ogni sorta
di violenza. Le rivolte sono scoppiate a più riprese nella regione. Sono
state represse, ma la collera ha continuato a covare. Sia nel 1983 in
Tunisia e in Marocco che nel 1988 in Algeria, hanno mietuto numerose vittime
e centinaia di arresti. Di fronte alle difficoltà  della vita quotidiana, la
contestazione si è progressivamente radicalizzata, così come la repressione.
In Algeria, il paese più colpito da queste ondate di violenza, la
radicalizzazione ha condotto ad un affronto brutale tra gruppi islamici
armati più o meno ben identificati e un potere militare simbolo della
repressione cieca e del rifiuto dell’apertura politica. Un affronto che ha
fatto più di 150.000 morti senza contare i feriti, i mutilati e i
traumatizzati, e tutti gli scomparsi di cui le famiglie non hanno più avuto
notizie da molti anni.

– Le libertà  confiscate.
In queste condizioni, tanto vale dire che la questione delle libertà  è
centrale in tutti i paesi del Maghreb. Dappertutto esse sono attualmente
confiscate. Le elezioni, quando hanno luogo, sono regolarmente truccate,
come mostrano i risultati degli scrutini in Tunisia o in Algeria. La
giustizia continua a non essere indipendente dal potere politico. Basta
vedere come sono giudicati i dissidenti in questi paesi, o anche solo i
difensori dei diritti umani e i sindacalisti. Quanto ai giornalisti e agli
altri rappresentanti della stampa, sono sottoposti a forti pressioni, alla
censura e a ogni forma di repressione, compresi i rapimenti e la reclusione.
Cosa dire ugualmente e al contrario di tutti quei processi che non hanno
avuto luogo e che riguardano assassinii non chiariti o atti di corruzione
che coinvolgono dignitari di questi regimi?
Per tutte queste ragioni, secondo il PNUD (cfr. il rapporto sullo sviluppo
umano 2002) il Maghreb, come il resto del mondo arabo, si trova all’ultimo
posto in materia di libertà .

13 – Le fratture si allargano

– La frattura euro-maghrebina
In queste condizioni, la frattura tra le due rive del Mediterraneo non
smette di allargarsi. Lo scarto di ricchezza è oggi di uno a dieci. Il PIL
del solo Belgio è largamente superiore a quello del Maghreb. Anche se il
PIL globale del Maghreb dovesse duplicarsi da qui al 2012, cosa che
supporrebbe una crescita media del 6% all’anno, il PIL per abitante
resterebbe appena stabile a causa della crescita demografica, e il fossato
tra le due rive continuerebbe ad aumentare. In effetti, se queste tendenze
dovessero continuare, si arriverebbe a uno scarto di uno a venti per il
2012, orizzonte dell’instaurazione della zona di libero scambio. Una tale
evoluzione sarebbe di fatto poco propizia al ritorno della stabilità  nella
regione.

– L’Europa dei poveri
All’interno della Comunità  Europea vengono alla luce delle fratture
ugualmente pericolose. La crescita e la persistenza della disoccupazione, l’
estensione della povertà  e dell’esclusione in frange sempre più larghe della
popolazione, comprese quelle dei lavoratori, costituiscono motivo d’
inquitudine. La violenza e l’insicurezza si sviluppano particolarmente nelle
zone più povere delle città  e delle campagne. Le periferie dette calde ne
sono il simbolo, ingigantito da tutta una stampa sensazionalista e da
correnti politiche estremiste che giocano sulla paura e sulla xenofobia per
demonizzare l’Islam. Un settimanale come il Figaro-Magazine, pur con la sua
reputazione seria, non ha esitato a uscire nel 1988 col titolo: “Saremo
francesi nel 2025?” e una Marianna velata in copertina. La realtà  è che
queste periferie sono sotto il diktat dei mercanti di sonno, privati, che
prosperano sulla miseria delle popolazioni, peraltro sottoposte al disprezzo
e al disdegno dell’amministrazione e della burocrazia. In Francia, secondo
il ministro dei lavori pubblici, più di 250.000 alloggi sono in una
situazione d’insalubrità  grave che mette in pericolo le famiglie che vi
abitano. Per questa ragione, più di 65 città  devono essere riabilitate nei
prossimi cinque anni. Quindi, affermava recentemente e senza ambagi Jean
Louis Borloo, “Bisogna riconoscere che l’asse Nord/Sud attraversa le nostre
periferie”. Luogo di miseria e di povertà  economica, sociale e culturale, le
popolazioni in predominanza immigrate sono toccate più che altrove dalla
disoccupazione (fino al 30% della popolazione in certe città  dormitorio),
dall’insuccesso scolare, dalla malattia e da ogni sorta di discriminazione
di carattere razziale (nelle assunzioni, nelle occupazioni del tempo libero,
nell’aspetto). Sopravvivono nella disperazione e nella rabbia, davanti ad
una “società  catodica” da cui si sentono ogni giorno un po’ più escluse e
vittime. Una parte di esse cade in delinquenze di tutti i tipi, sviluppando
delle vere zone di non-diritto, e diventa facile preda delle reti della
droga, del radicalismo integralista e del banditismo.

– Le fratture maghrebine
In Maghreb, le fratture non sono meno profonde. Lo scarto di ricchezza tra
gli stessi Paesi maghrebini è importante come quello tra l’Europa e il
Maghreb, ossia i PIL variano da uno a dieci. La Mauritania dispone di un
reddito medio per abitante di 450$, il Marocco di 1.300$, l’Algeria di
1.600$, la Tunisia di 2.000$ e la Libia di 4.500$. Nonostante ciò, in tutto
il Maghreb la povertà  raggiunge livelli inimmaginabili. La disoccupazione
tocca il 12% della popolazione attiva in Libia, il 15% in Tunisia, il 18% in
Marocco e il 30% in Algeria. La distribuzione del reddito è particolarmente
disuguale, in una situazione di speculazione e di corruzione, di
clientelismo e di arbitrarietà . Gran parte della popolazione sopravvive con
meno di due dollari al giorno (più di 14 milioni in Algeria secondo il
Consiglio Nazionale Economico e Sociale). In materia di sviluppo umano, i
paesi del Maghreb sono quindi mal classificati: 64 ° posto per la Libia, 97°
per la Tunisia, 106° per l’Algeria, 123° per il Marocco e 152° per la
Mauritania, su 173 paesi, con un indice medio di 0,653. Risultato, le
periferie di Rabat, di Algeri o di Tunisi sono sottoposte allo stesso male
di vivere e alle stesse violenze.

-Le fratture sud – sud
A questo, si aggiungono tutta una serie di fratture della regione sud
mediterranea vissute molto male dalle popolazioni maghrebine. Il conflitto
israeliano-palestinese, con il suo corteo di drammi e di dolori, avvelena da
troppo tempo le relazioni tra gli arabi e gli israeliani, e al di là  le
relazioni euro-maghrebine, tanto più che alcuni tentano regolarmente di
gettare benzina sul fuoco e di importare questo conflitto sul territorio
europeo, per attizzare l’odio tra le comunità  ebraiche ed arabe. Si è
verificato un aumento dell’antisemitismo contro queste due comunità . In
questo quadro, le popolazioni arabe rimproverano frequentemente all’Europa
il suo allineamento alla politica americana di sostegno incondizionato ad
Israele. Queste recriminazioni non sono sempre giustificate. A più riprese,
delle voci europee si sono alzate sia contro le devastazioni del terrorismo
cieco in Israele che contro le malversazioni militari israeliane in
Palestina. Tra queste, ricordiamo quella, ufficiale, del presidente Jacques
Chirac in occasione del suo ultimo viaggio in Medio Oriente, o ancora quelle
dei parlamentari, dei sindacalisti o delle ONG europee. Anche la questione
irachena continua ad irritare le popolazioni maghrebine le quali non
comprendono come una guerra (quella del Golfo nel 1991), dei bombardamenti
ripetuti e un embargo dei più severi, siano imposti alla popolazione
irachena più che al dittatore che la dirige, facendo dei milioni di vittime
tra le popolazioni civili e i bambini (50 mila decessi di bambini in più
ogni anno dal 1991). Anche qui, bisogna dire che la Francia e una parte
dell’Europa (esclusa la Gran Bretagna) hanno periodicamente denunciato con
vigore questo embargo, e sono riuscite a rallentare (fermare?) i preparativi
di una seconda guerra del Golfo che il governo Bush si prepara a condurre
contro l’Irak. Traducendo così una volontà  d’indipendenza e d’equilibrio
nelle loro relazioni con l’insieme dei partner della loro regione. Alcuni
diranno che si tratta qui di una politica guidata da soli interessi
economici che odorano di petrolio. Forse, ma alcuni risultati ci sono ed
evitano di allargare ancora il fossato tra le due rive del Mediterraneo, ed
è tanto meglio. Ma queste prese di posizione non possono nascondere che le
fratture tra i paesi del sud si allargano, rendendo ormai impossibile
qualsiasi “fronte dei poveri” del terzo mondo, come era stato costruito da
Bandung a Algeri negli anni ’50 e fino agli anni ’70. Israele dispone già  di
un PIL per abitante otto volte superiore a quello del Maghreb, (e da 30 a 40
volte superiore a quello della Palestina!). All’orizzonte del 2012, questo
scarto potrebbe passare da uno a 25, allora il PIL dei 7 milioni di
israeliani equivarrebbe a quello dei 140 milioni di abitanti dei paesi
vicini. Che cosa pensare anche della Corea del Sud, più povera dell’Algeria
nel 1960, che oggi caracolla con un PIL per abitante di 12.000$, e un PIL
globale quattro volte superiore a quello di tutto il Maghreb?

1.4-Delle popolazioni soffrono e muoiono

-Tra violenze e repressioni
Dentro a tutto questo, ci sono delle popolazioni che soffrono e muoiono, che
le relazioni euro-maghrebine non possono continuare ad ignorare. Sottomesse
da decenni al ciclo infernale delle violenze e della repressione, le
popolazioni maghrebine non smettono di disperare. Continuano a non vedere la
fine dell’incubo. Non osano più sognare un nuovo avvenire portatore di
speranza per i loro figli. Come quello che i loro dirigenti e l’Europa
avevano loro promesso all’indomani delle indipendenze. Queste popolazioni
hanno a lungo “scambiato” il loro silenzio con questa speranza in un reale
sviluppo, di cui attendevano qualche ripercussione. Ormai, malgrado il peso
della repressione e delle violenze multiformi, la sete di esprimersi è tanto
più forte quanto la fame e le delusioni sono grandi. Da qualche anno, questa
esigenza mette un termine all’unanimità  di facciata che aveva accompagnato
le politiche di sviluppo e i grandi incontri di cooperazione internazionale,
sotto forma di nazionalismo esacerbato. Le popolazioni alzano la voce. Le
società  civili si organizzano e non esitano più a sfidare i poteri
costituiti.

-Tra miseria e povertà 
Le popolazioni maghrebine scoprono in effetti, e con smarrimento, che molti
dei loro dirigenti hanno talvolta dilapidato le risorse pubbliche, per
costruire dei progetti “faraonici” inefficaci che hanno inghiottito delle
somme di denaro colossali, acquisite secondo un processo di indebitamento
incontrollato, di cui dovranno assicurare il rimborso per lunghi anni. Hanno
anche compreso che la loro miseria non era condivisa da questi dirigenti e
dai loro clienti, che non tutti avevano perduto le ricchezze. La
mobilizzazione per la battaglia dello sviluppo ha permesso, con la copertura
di importanti settori pubblici, di stornare una parte importante di queste
risorse a fini personali, grazie a meccanismi più vicini alla delinquenza
finanziaria e commerciale che alle strategie di sviluppo e di integrazione
sbandierate nel corso del processo. Come molti paesi del terzo mondo, i
paesi del Maghreb sono così caratterizzati da fughe di capitali, in
particolare verso l’Europa (riciclati nel settore alberghiero, immobiliare o
nei servizi), e dalla costituzione di fortune considerevoli su fondi di
corruzione e di scambi commerciali opachi. Ora, alla prova dei fatti, lo
sviluppo non può essere ridotto all’esportazione di petrolio, di abiti o di
verdure prodotte da una moltitudine di poveri. La fortuna e il potere di
alcuni possono essere costruiti sulla miseria e la povertà  di molti. Non lo
sviluppo di un paese o di un insieme di paesi.

-Il miraggio dell’altra riva
Lo sviluppo non si trova nemmeno nella fissazione del miraggio della riva
nord, magnificato dalla magia dei satelliti e delle immagini che bagnano in
permanenza il Maghreb attraverso la mediazione di televisioni e computer. Il
sogno europeo, a colpi di pubblicità  e di programmi incantatori, già 
inaccessibile a una gran parte della popolazione europea, diventa allora il
simbolo di rifugio quotidiano per dei milioni di maghrebini che, ogni
giorno, evadono attraverso il tubo catodico, e per un momento, dalla durezza
di un quotidiano senza prospettive e apparentemente bloccato. Sull’altra
riva, ci sarebbe la libertà , il denaro, la consumazione, in una parola la
felicità . Per tutti questi uomini e queste donne, andare in Europa sarebbe
“Ali nel paese delle meraviglie”.

-Le migrazioni selvagge
Allora si comprende meglio perché sempre più numerosi candidati sono pronti
a tutto pur di raggiungere la riva nord, con o senza l’aiuto delle reti di
scafisti che si sono rapidamente organizzati per rispondere alla domanda. Le
restrizioni drastiche operate sulle migrazioni legali anno solo amplificato
il fenomeno. Che sia per via marittima, aerea, o anche su fragili
imbarcazioni, l’attualità  è piena dei racconti sulla fine drammatica del
viaggio per annegamento in mare aperto o per soffocamento in un container,
sulla banchina di un porto o di una stazione.

2. VIVERE SULLE DUE RIVE

Ora si vede più chiaramente: il fossato scavato tra il Maghreb e l’Europa
non si fonda principalmente su questioni di civiltà  (il tristemente celebre
“shock delle civiltà ” predicato dal 1993 dal professore americano Samuel
Huntington), di cultura, o di culto. L’opinione pubblica, regolarmente
surriscaldata dalle azioni selvagge del terrorismo internazionale, e la
amalgama che di conseguenza viene fatta tra i responsabili di questi atti
ingiustificabili e inqualificabili, da una parte, e l’Islam e i musulmani
dall’altra, dovrebbe comprendere che il fossato che separa questi ultimi dai
criminali è tanto vasto quanto il Mediterraneo. Quindi, non cerchiamo di
trovare a quale nazionalità  o religione appartenga un terrorista. Più
esattamente e semplicemente diciamo, se mi è permesso, che un terrorista è
un terrorista, proprio come un dittatore è un dittatore. Nei due casi, che
si ammantino di religiosità , di nazionalismo esacerbato o di ragione di
Stato, il terrorista come il dittatore hanno in comune di essere nocivi per
la società  in generale, e in particolare per la loro propria società , la
loro cultura e la loro religione. La loro violenza non potrebbe per questo
motivo essere sopportata, né tollerata, ancor meno giustificata. La
giustizia, foss’anche internazionale, li deve perseguire con tutto il rigore
della legge. Questi atti non dovrebbero tuttavia richiamare una contro
violenza e una repressione di Stato verso le popolazioni musulmane, né
servire come alibi ad una politica securitaria anti-araba nel Mediterraneo
che fa la corte ai regimi autoritari e bellicosi di tutta la regione sud del
Mediterraneo. No, alla base di queste fratture multiple aperte delle
relazioni tra l’Europa e il Maghreb, c’è prima di tutto la questione
essenziale dello sviluppo, della creazione e della distribuzione oggi iniqua
delle ricchezze tra le due rive del Mediterraneo.

2.1-Le condizioni dello sviluppo

-La tirannia del debito
Tra le condizioni dello sviluppo, la tirannia del debito è una delle più
persistenti. I paesi del Maghreb sono pesantemente indebitati, malgrado
numerosi programmi di ricampionamento dei loro debiti e dei rimborsi
conseguenti da quasi vent’anni, con tassi particolarmente onerosi. Così, a
titolo d’esempio, bisogna notare che a livello del Maghreb, in quattro anni
(1989-1992) i rimborsi sono stati di 46 miliardi di dollari. Dal 1992, la
sola Algeria aveva sborsato, per il suo debito, una cifra doppia del
Portogallo (34 miliardi di dollari contro 18 miliardi) mentre il suo debito
globale era inferiore a quello del Portogallo. Per queste ragioni, ancora
oggi, il debito globale del Maghreb è stimato a circa 68 miliardi di
dollari, ovvero il doppio rispetto al 1980. Tuttavia, dietro queste medie,
tra i paesi maghrebini appaiono differenze sensibili. Rapportati alle
esportazioni, i livelli di indebitamento corrispondono a un anno
d’esportazioni tunisine, a più di un anno e mezzo per il Marocco, a più di
due anni per l’Algeria, e a più di cinque anni per la Mauritania. In più, il
tasso di indebitamento pro capite (il rapporto tra il debito per abitante e
il PIL per abitante) è di 15% per il libico, di 50% per il tunisino, 61% per
il marocchino, 65% per l’algerino e 250% per il mauritano. Così, più le
popolazioni sono povere e più è pesante il fardello del debito. Un fardello
che si chiede loro di assumere perché, alla fine, sono loro che devono
pagare le tasse che permetteranno di pagare il conto.

-La penuria d’acqua
La seconda condizione è maggiormente legata alle condizioni climatiche
prevalenti in Maghreb. Dalla metà  degli anni 1990, un rapporto della Banca
mondiale segnalava che il volume d’acqua disponibile per abitante in Maghreb
(e nel medio oriente) era diminuito da 3.300 metri cubi nel 1960 a 1.250 nel
1996, e che a questo ritmo si arriverà  a 650 metri cubi nel 2025. In
previsione, in meno di dieci anni saranno più di 200 milioni gli abitanti
che non avranno accesso all’acqua potabile sulla riva sud del Mediterraneo.
Le siccità  cicliche che colpiscono duramente i paesi della regione, unite
all’avanzare della desertificazione e alla penuria cronica d’acqua che ne
segue, indeboliscono ancor più delle terre irrigate con insufficienza e poco
redditizie. Così, i rendimenti medi dei cereali sono raramente superiori ai
15 quintali per ettaro mentre si raccolgono tra i 70 e gli 80 quintali di
grano in Francia. In materia idraulica, le politiche maghrebine non sono
maggiormente coordinate. I marocchini hanno investito piuttosto nella
piccola e media idraulica, gli algerini in una politica di grandi dighe, e i
libici in enormi trivellazioni nell’immensa falda che attraversa il
sottosuolo del Sahara. Nonostante ciò, il Maghreb non si ricorda più di
essere stato una volta il granaio dell’impero romano e anche della Francia
del XIX secolo. La fattura non pagata del grano algerino spedito alla
Francia non è servita in parte a scatenare l’avventura coloniale del 1830?
Resta vero che dopo le indipendenze i paesi del Maghreb dipendono molto
fortemente dal resto del mondo, e soprattutto dall’Europa in materia
alimentare. Al di là  dei suoi effetti sull’alimentazione, la penuria d’acqua
avvelena la vita dei maghrebini, provoca delle difficoltà 
d’approvvigionamento delle città  (Algeri ancora oggi è alimentata d’acqua
solo due o tre giorni alla settimana) e le campagne, e provoca delle gravi
difficoltà  di funzionamento delle unità  industriali. Questo stress idrico
permanente, che gli esperti stimano sarà  ancor più intenso negli anni a
venire, fa riapparire delle malattie e nelle epidemie (colera, difterite)
che si credevano sconfitte. Per far fronte a questa situazione, le autorità 
marocchine ricorrono talvolta all’importazione di navi cariche d’acqua, e
l’Algeria riflette ormai sui mezzi per sviluppare una rete (costosa) di
unità  di desalinizzazione dell’acqua di mare.

-Produzione-impiego e redditi
La debolezza della produzione agricola è aggravata dal non rendimento delle
industrie maghrebine. Costrette a lungo in settori pubblici corrosi da una
burocrazia puntigliosa, dalla mancanza di maestria tecnologica, dal
soprannumero degli effettivi, le grandi unità  industriali hanno raggiunto
livelli molto bassi dell’uso delle capacità  di produzione installate, e
quindi dei costi di funzionamento molto elevati. Dagli anni 1980, queste
grandi imprese sono state costrette ad adattarsi – programmi d’aggiustamento
oblige – con bonifiche finanziarie e tecniche più o meno riuscite e un
passaggio alla forma privata più o meno ben controllato. Ormai, in tutto il
Maghreb, il settore privato riprende vigore, ma resta ancora fragile, anche
se in alcuni paesi come la Tunisia è iniziata una dinamica reale. Gli
imprenditori tunisini, e con loro i marocchini e gli algerini, sono molto
inquieti degli effetti che seguiranno rapidamente l’apertura generalizzata
del Maghreb alla concorrenza europea e l’apertura, più ampia, conseguenza
della loro adesione all’OMC (organizzazione mondiale del commercio). Per
molti di loro, la convalescenza è ancora in corso, come mostrano i deboli
rendimenti delle diverse imprese industriali, e molti di loro temono la
sparizione di una buona parte dei mezzi produttivi maghrebini, con un carico
di catastrofi sociali e politiche.
Questo timore si avvicenda peraltro con la crescita di comportamenti
speculativi e commerciali miopi, in questi paesi e soprattutto in Algeria. I
possessori dei capitali, tranne forse in Tunisia, delusi dalla lentezza, o
meglio dal blocco dei processi di riforma, sembrano disinteressarsi ad un
settore industriale votato, secondo loro, a sparire di fronte ai giganti
stranieri nel peggiore dei casi, e nel migliore a servir loro da strumento
per conquistare lo spazio maghrebino, sotto forma di accordi commerciali, di
forniture o di partenariati tecnologici e finanziari. Di qui le difficoltà 
per il PIL maghrebino di crescere al ritmo necessario per uscire dal cattivo
sviluppo.

-Speculazione e corruzione
In queste condizioni, la speculazione e la corruzione sembrano avere ancora
un futuro. Il buon governo è ancora lontano dall’essere la regola. Ora, come
precisa Koffi Annan, il segretario generale dell’Onu, “un buon governo
costituisce forse il fattore più importante per sradicare la povertà  e
assicurare lo sviluppo”. La penuria, aumentata dalla caduta del potere
d’acquisto in questa regione, riappare per la gioia degli speculatori. I
fenomeni di corruzione e di speculazione che sembravano legati solamente al
settore pubblico, alle eminenze grigie e alle loro clientele nazionali e
internazionali, sembrano “democratizzarsi ” nel settore privato formale come
in quello informale, e continuano ad approfittare dell’assenza o
dell’insufficienza dello Stato di diritto nella regione. Perciò, il cattivo
sviluppo continua a corrompere i settori produttivi nazionali e a mietere
numerose vittime.

2.2. Gli emarginati dello sviluppo

Il disprezzo delle donne
E’ indubbio che le donne siano le prime vittime di questo sviluppo
inefficace e non è certo la posizione relativamente privilegiata della donna
tunisina che può impedirci di affermarlo. La condizione femminile in
Tunisia è l’albero che nasconde (male) la foresta delle ingiustizie e del
disprezzo di cui sono bersaglio le donne magrebine. Nella maggior parte dei
paesi del Magreb la donna è sottoposta, con il pretesto del rispetto dei
principi islamici, a norme giuridiche, economiche e sociali ampiamente
sorpassate. Come in Algeria il suo status ne fa un minore a vita,
dipendente dalla benevolenza del marito o del padre e costretta ad
accettare la poligamia e il ripudio. Eppure, fino ad oggi, nessun paese del
Magreb è stato governato da un regime esplicitamente islamico e nessuno
Stato, ad eccezione della Mauritania, si dichiara ufficialmente repubblica
islamica. In questi paesi la questione della parità  di genere è sempre
relegata in secondo piano. Ancora di recente il giovane re marocchino ha
dovuto rinunciare all’intento di affrontare il problema a causa del
malcontento crescente degli ambienti tradizionali del regno. Più volte
annunciato nei discorsi ufficiali lo sviluppo della condizione femminile
nelle società  magrebine resta invece legato alla tradizione più retriva.
Questa situazione giuridica si riflette perfettamente nella situazione
economica e sociale della donna. Nella maggioranza dei paesi magrebini il
numero delle donne che hanno accesso a un’occupazione retribuita resta
marginale (meno del 10% in Algeria, più del doppio in Tunisia). La
disoccupazione femminile è di durata più lunga e maggiore di quella
maschile, già  molto elevata. Le ragazze hanno una scolarizzazione inferiore
ai ragazzi e, nei testi scolastici, si continua a diffondere un’immagine
della donna sottomessa e relegata ai compiti domestici. Inoltre, nei corsi
di religione, impartiti da persone con una formazione insufficiente, tutto
ciò è legittimato dal discorso di matrice religiosa. Di conseguenza quasi
tre quarti delle donne sono casalinghe e non è raro che donne con un
livello di studi universitario restino a casa sotto il peso delle pressioni
sociali e della tradizione.
Per le stesse ragioni le donne sono sottoposte al fardello delle
responsabilità  domestiche. La scarsità  di alloggi, la vita nelle bidonville,
il razionamento dell’acqua, la mancanza di cure adeguate, il fallimento
scolastico dei loro numerosi figli, la disoccupazione di cui sono vittime e
la via della criminalità  che imboccano sono altrettanti dolori che le donne
affrontano con coraggio. A ciò si aggiungono tutti i tipi di violenza e di
aggressione fisica e morale che esse subiscono non appena accennano a
discostarsi dai comportamenti tradizionali. Per tutti questi motivi l’UNDP
colloca il Magreb al penultimo posto, subito prima dell’Africa
subsahariana, nel quadro della partecipazione delle donne allo sviluppo.

La disperazione dei giovani
I giovani sono le altre vittime di questo sviluppo inefficace che, per loro,
è sinonimo di male di vivere. I giovani magrebini, nonostante gli sforzi
compiuti da ciascun paese per accrescere il tasso di scolarizzazione (in
media più del 70%), sono confrontati a un livello elevato di fallimento
scolastico. Ogni anno centinaia di migliaia di giovani sono così “scaricati”
in strada, con la sola prospettiva della disoccupazione, dei lavori precari
nel settore informale e nelle filiere della speculazione, se non addirittura
dell’immersione nel radicalismo islamico. Al di là  di questo non vi sono
prospettive reali di cavarsela e di costruire un vero progetto di vita e di
lavoro. Ne consegue che l’età  del matrimonio si abbassa senza sosta, la
delinquenza aumenta, il traffico di droga si infiltra ormai nelle scuole,
come in Europa, e alcuni giovani sono sempre più attirati dal suicidio (i
tassi sono in costante aumento), o dall’abbandono del paese d’origine, a
qualsiasi prezzo e con qualsiasi mezzo, verso orizzonti che si presuppongono
migliori: le coste settentrionali del Mediterraneo.

Gli artisti ignorati
I giovani sono ancor più disperati poiché gli artisti, i cantanti, gli
attori e gli scrittori, che potrebbero aiutarli a sognare, sono essi stessi
ignorati o censurati dal regime al potere e perseguitati dai terroristi.
Quanti sono stati costretti all’esilio in condizioni drammatiche,
soprattutto in Europa, per poter esprimere la loro arte? Quanti sono morti
per aver sfidato i divieti ufficiali o religiosi?

I migranti tra le due sponde
Anche i migranti sono grandi vittime di questa situazione di cui soffrono
due volte: nel paese d’origine e nelle periferie delle città  europee. Come
amano ripetere sono “stranieri in patria e fuori”, sorta di apolidi anche
nel caso in cui dispongano della doppia nazionalità . Ricordo che uno di
loro diceva “In definitiva sto bene soltanto quando l’aereo sta sorvolando
il Mediterraneo.” E c’è da sperare che l’aereo non sia dirottato da
pirati dell’aria, come successe al Boeing dell’Air France nel 1994. Ovunque,
sembra che disturbino, ed essi hanno ormai la sensazione di essere i capri
espiatori di relazioni euromediterranee con prospettive scarse. Sarebbero
loro, i poveri tra due mondi, la causa delle crisi strutturali che
colpiscono questi due continenti, come delle violenze che ne derivano e dei
traffici di ogni tipo che alimentano la regione. L’incremento delle
migrazioni selvagge, la criminalizzazione dei fenomeni migratori illegali,
le destinazioni molteplici e pericolose di taluni migranti (Arabia Saudita,
Afghanistan, Pakistan) attraverso l’Europa, la recrudescenza degli atti di
terrorismo e del traffico di droga ne fanno dei colpevoli ideali. A tal
punto che la cooperazione in materia di emigrazione-immigrazione si è
rapidamente trasformata in cooperazione di sicurezza. Dato che ogni
terrorista che intende raggiungere l’Europa deve emigrare, qualsiasi
migrante è pertanto -esagero solo un po’- un terrorista potenziale. Di
conseguenza la politica migratoria in essere tra l’Europa e il Magreb è in
pratica diventata una questione di competenza esclusiva dei ministeri dell’
interno. Da una decina d’anni sono ormai innumerevoli le riunioni dedicate a
questo aspetto dai ministri competenti. Tuttavia la logica della sicurezza,
abbinata alla sola logica commerciale, non può fare a meno di azioni di
vasta portata necessarie a rendere dinamici gli inevitabili processi di
democratizzazione dei paesi del Magreb.

2.3 – La democratizzazione inevitabile

L’Islam tenuto in ostaggio
Nel quadro delle relazioni euromagrebine la democratizzazione è intrappolata
soprattutto dalla posizione che i soggetti in causa assumono nei confronti
dell’Islam, di cui si servono sempre più come di un ostaggio. Da un lato,
dalla riconquista dell’indipendenza, nel Magreb la religione si colloca al
centro della lotta per il potere. Per controllare il culto delle popolazioni
e, oltre a ciò le loro coscienze, le autorità  magrebine hanno fatto dell’
Islam una religione di Stato, rendendola in tal modo subordinata al potere
politico. Dopo l’indipendenza si riscontra la gestione diretta delle
moschee, la formazione e la nomina degli imam da parte degli Stati e il
finanziamento di nuove moschee e relativo funzionamento. E’ l’epoca della
strumentalizzazione dei luoghi di culto da parte del potere; le moschee sono
di fatto un prolungamento dello Stato. Con l’incremento della miseria e
della povertà , la contestazione del potere si appoggia molto rapidamente
alla vasta rete di moschee. Il movimento islamista rimprovera alle autorità ,
considerate empie, corrotte e contro il popolo, di allontanarsi dai precetti
dell’Islam e sogna di sovvertire la tendenza, ossia: sottomettere lo Stato
all’Islam e, a tal fine, instaurare uno Stato teocratico fondato sulla legge
religiosa. E’ l’epoca della strumentalizzazione della religione e dei luoghi
di culto da parte dell’Islam radicale. Gli imam ufficiali sono contestati e
sostituiti da imam militanti. Le moschee diventano cellule partigiane
incaricate di coordinare la lotta contro il potere. I discorsi politici
delle autorità  nelle mosche cede il posto al discorso politico degli
oppositori islamisti. La battaglia per la conquista o la riconquista delle
moschee infuria, sotto gli occhi attoniti dei credenti che esitano a
recarvisi per pregare e che, di fatto, subiscono la pressione dei vicini. D’
altra parte questa opposizione tra “l’Islam di Stato” e i partigiani dello
“Stato islamico” nel Magreb è in certa misura importata in Europa: nelle
periferie senza moschee, si costituiscono sale di preghiera dirette da imam
non sempre qualificati, a volte al limite del rispetto delle leggi
repubblicane che lo Stato tenta giustamente di imporre.
Come nel Magreb, l’Islam e i credenti sono ostaggi di questa opposizione tra
Stato e militanti dell’islamismo politico, tanto più che non esistono
organizzazioni rappresentative dei musulmani, riconosciute tali dalle
autorità . La soluzione del problema non è, evidentemente, solo nelle misure
di sicurezza. Le discussioni sull’integrazione della pratica religiosa nel
rispetto dei principi repubblicani, avviate in Francia, nonché sull’esigenza
di rappresentare i musulmani francesi vanno nella giusta direzione.
In Europa come nel Magreb, il solo modo di affrontare la questione consiste
nel disarmare ideologicamente e politicamente gli islamisti, al pari dei
poteri politici non democratici, procedendo alla democratizzazione più vasta
possibile delle società  magrebine e liberando così l’Islam e i credenti da
questa logica infernale in cui sono stati imprigionati. L’esperienza vissuta
negli ultimi anni dallo Stato laico turco (che bussa alla porta dell’Europa)
ad esempio, può offrire un insegnamento prezioso su come sia possibile
costruire, nel rispetto della legalità  repubblicana, una relazione pacifica
tra i partiti islamisti e la democrazia.

La polveriera berbera
Oltre all’Islam e agli islamisti, l’altro pomo della discordia magrebina che
può essere importato in Europa è rappresentato dalla questione berbera.
Quest’ultima è stata a lungo utilizzata come pretesto per dividere le
popolazioni magrebine permettendo così al potere coloniale di perdurare. In
Algeria la lingua kabyla era esaltata per contrapporla meglio all’arabo:
questo tentativo non ha avuto molto successo tuttavia, le autorità  al potere
adottano oggi comportamenti analoghi. La maggioranza della popolazione
algerina e, anche magrebina, sa però che all’origine, dall’Egitto fino al
Senegal, le popolazioni autoctone erano tutte berbere e che, attualmente,
nel Magreb vi sono per lo più soltanto arabi berberizzati o berberi
arabizzati. Ciò non di meno la questione della lingua e della cultura
berbere resta una rivendicazione essenziale sia in Algeria sia in Marocco.
Questi problemi, hanno ricevuto abbozzi di risposta, peraltro insignificanti
in entrambi i paesi, poiché essi fanno ormai parte di rivendicazioni più
ampie sulle condizioni di vita delle popolazioni sotto il profilo economico,
politico e sociale. Tali rivendicazioni democratiche si chiamano: libertà 
individuali e collettive, diritto al lavoro, alla casa, alla salute e all’
istruzione per tutti, fine del disprezzo (hogra) e della repressione. I
tragici avvenimenti che scuotono la Kabylia e altre regioni del paese da
oltre un anno ne sono il segno forte. In tutta evidenza questi avvenimenti
si ripercuotono in Europa dove una gran parte di immigrati sono originari
delle regioni di lingua berbera del Magreb.

La costruzione degli stati di diritto
Dinanzi a tali sfide, che hanno avuto un’incidenza immediata sulle relazioni
euromagrebine, l’Europa ha tutto l’interesse a costruire reali stati di
diritto nell’intera regione. Ciò passa necessariamente dal primato della
sovranità  popolare nei paesi in questione, dalla creazione di istituzioni
liberamente elette, dalla definizione e dal rispetto di tutte le libertà 
individuali e collettive, dal rispetto dei diritti dell’uomo e del
cittadino, dal diritto alla libertà  d’espressione orale e scritta.
Fintantoché i regimi del sud del Mediterraneo continueranno a sopprimere
queste libertà , imbavagliare il pensiero, la parola e la scrittura connotati
dalla diversità , a rendere illegali le opposizioni democratiche e non, a
calpestare i diritti dell’uomo e del cittadino, non ci sarà  un vero
partenariato durevole tra il nord e il sud del Mediterraneo. Al nord non
possiamo continuare ad ignorare questi superamenti e questi blocchi, foss’
anche in nome della lotta legittima contro il terrorismo. La democrazia
economica va di pari passo con la democrazia politica e quest’ultima non si
riscontra, attualmente, tra le autorità  al potere e, ancora meno, nell’
islamismo politico ancorché moderato.

L’arma del dialogo
Uno stato di diritto non si costruisce con la forza dei kalashnikov, della
spada o dei carri armati. Uno Stato democratico si costruisce, nella pace
ritrovata, attraverso il dialogo politico il più esteso possibile, ossia
aperto a tutti gli strati della società  magrebina che desiderano una
gestione pacifica dei conflitti di interesse. L’UNDP ricorda ancora una
volta: le democrazie sono meno soggette alle guerre civili; le democrazie
recenti gestiscono i conflitti meglio dei regimi autoritari; i paesi
democratici raramente scendono in guerra l’uno contro l’altro. Occorre
pertanto con urgenza che l’arma del dialogo faccia tacere il dialogo delle
armi e che il sangue magrebino cessi finalmente di scorrere. Senza alcun
dubbio si tratta di una sfida eccezionale che deve essere raccolta sia
dalle autorità  al potere, sia dalle opposizioni islamiste sia dalla società 
civile magrebina nel suo insieme. Ne va del futuro delle relazioni
euromagrebine come del Magreb nella sua totalità . Ma è anche la sfida che
attende i promotori del partenariato euromagrebino poiché, evidentemente,
molte di questi problemi sono ampiamente occultate dagli