Lord Keynes inviato al fronte

ENZO MODUGNO
I Social Forum sono stati anche, a guardar bene, dei congressi internazionali di
polemologia, una disciplina che studia le cause delle guerre. Da Firenze a Porto Alegre
in centinaia di dibattiti sono state valutate le dichiarazioni ufficiali del governo Usa e le
principali cause della guerra avanzate finora, cioè il keynesismo militare, il terrorismo,
il petrolio. Partiamo dalla prima spiegazione, il keynesismo militare. «Con Reagan –
ha scritto Samir Amin – il keynesismo sociale è stato ripudiato, ma a favore di un
keynesismo militare – immutato dal 1945 e mantenuto anche dopo la dissoluzione del
presunto nemico sovietico – per il quale la scelta egemonica di Washington ha trovato
nuove legittimazioni». Secondo questa versione, la crisi economica, la più grave dopo
il `29, è oggi il pericolo reale e inconfessabile per la «sicurezza nazionale» Usa, non il
terrorismo e il petrolio delle versioni ufficiali. Quindi la spesa pubblica militare – il
keynesismo infinito – serve in realtà  a combattere la crisi perché ha il duplice effetto:
1) di attutire la recessione – come sostegno alla domanda che diventa decisivo
quando la riduzione della pressione fiscale e i tagli del costo del denaro non danno
risultati – e 2) di rafforzare l’egemonia militare – che permette di controllare mercati e
campi d’investimento e di rassicurare i capitali esteri che affluiscono a finanziare il
deficit statunitense.

Una sinergia micidiale. La spesa pubblica militare è così diventata la formula della
sopravvivenza per il capitalismo statunitense afflitto da depressione cronica, ed è
ormai una necessità  permanente, strutturale, inconfessabile che ha dunque bisogno di
apparire necessaria in altro modo, giustificata cioè da una continua, ossessiva,
apocalittica minaccia, che se c’è va enfatizzata e se non c’è va costruita.

Torniamo un po’ dietro nella storia, agli anni Trenta, quando gli Usa stavano
attraversando il decennio di depressione più disastroso della loro storia, curato invano
con la spesa pubblica civile. Ma quando «il dottor New Deal – disse l’allora presidente
Roosevelt – lasciò il posto al dottor vinciamo la guerra», e nel 1941, già  nei primi mesi
di conflitto con la forte ripresa della produzione, gli Usa verificarono l’efficacia
economica della spesa pubblica militare, la adottarono stabilmente e da allora non
l’hanno più abbandonata. Quindi non ci troviamo all’inizio della «guerra infinita» ma
ad un’alternanza di guerre calde e fredde che dura da 61 anni: oggi infatti, con la
capacità  produttiva inutilizzata al 25%, come nella grande depressione, l’unica
domanda che continua a crescere è quella per gli armamenti.

Il military keynesianism, di cui hanno scritto Paul Sweezy e Paul Baran, Harry Magdoff,
Samir Amin, che hanno interpretato in questo modo le guerre Usa per più di mezzo
secolo, è stato ripreso nei Social Forum ma oggi è quasi ignorato a sinistra. Ne ha
parlato Alex Zanotelli e ne hanno variamente trattato Massimo Pivetti su «Giano»,
Giacchè, Burgio e Catone su «L’Ernesto», Nella Ginatempo su «Pace e guerra» e
Sbancor su Indymedia, Luciano Vasapollo e Giorgio Gattei in La belle epoque è finita,
quaderno di «Contropiano». Ma non ve n’è traccia nel pur dotto volume Per una pace
infinita di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni, secondo i quali la guerra viene fatta per
rimuovere le interruzioni alla circolazione delle comunicazioni e dei flussi del petrolio e
del denaro.

Secondo la spiegazione «keynesiano-militare» delle minacce di guerra, il terrorismo e
il petrolio svolgerebbero il ruolo ufficiale di «minaccia».

La guerra al terrorismo è la versione ufficiale fornita dall’amministrazione Usa,
accettata da neoliberisti di destra e di sinistra, e anche da una parte della sinistra che
rifiuta la guerra, ma perché la considera un mezzo inadeguato e controproducente. Si
vedano a questo proposito, le critiche a questa spiegazione date da Andrea Catone
nel numero 5 de «L’Ernesto». Rifiuta questa versione anche Alex Zanotelli: «Non è una
guerra contro il terrorismo. Non so cosa sia successo l’11 settembre, un giorno lo
sapremo, ma il complesso militare-industriale americano ha usato l’11 settembre per
rilanciare l’economia».

Qualche mese fa a Praga, il presidente americano George W. Bush ha dichiarato: «La
guerra fredda è finita ma ora ci sono nuovi nemici. Ci abbiamo messo dieci anni per
capire qual era la nuova minaccia», confessando così la troppo lunga gestazione della
strategia statunitense sulla sicurezza nazionale. Ma può essere detto, con Ramonet,
in altro modo: «l’anticomunismo vi era piaciuto? l’antislamismo vi entusiasmerà ».
Tuttavia il terrorismo islamista non è l’Armata rossa e i 10 mila di Al Qaeda non
riescono a giustificare una spesa militare così sproporzionata; anche perché sono stati
allevati, istruiti, armati dagli Usa sin dagli inizi e usati contro l’Urss in Afganistan; una
credibilità  vacillante, anche per i dubbi e le inchieste sull’11 settembre.

E’ stato dunque necessario un rilancio ufficiale. Se dopo l’11 settembre erano stati
previsti due anni, adesso il «piano militare strategico per la guerra al terrore» ne
prevede altri trenta, un intero periodo storico, l’equivalente della Guerra fredda, in
realtà  la sua continuazione. «E’ la formula magica per far durare all’infinito il periodo
delle vacche grasse: la Guerra fredda è una pompa automatica, si gira un rubinetto e
la gente strepita per nuovi stanziamenti militari, se ne gira un altro e lo strepito
cessa», scriveva 50 anni fa l’ultraconservatore «U.S. News and World Report» (citato da
Paul Sweezy ne Il capitale monopolistico). Nulla di nuovo dunque, nient’altro che la
solita, collaudatissima «formula magica». Costruire o enfatizzare la minaccia per
giustificare l’ingente spesa pubblica militare. Ma alla Casa Bianca ci sono due scuole di
pensiero e la seconda ha un’altra minaccia da affiancare al terrorismo: la mancanza di
petrolio.

La mancanza di petrolio costuisce, secondo alcuni documenti dell’amministrazione
Bush, il vero pericolo, dato che fondano alla «sicurezza nazionale» Usa sul controllo
dei giacimenti. Questa spiegazione è recepita da un’altra parte della sinistra perché
combacia con l’interpretazione «leninista» della guerra imperialistica come guerra di
rapina. Per Valentino Parlato potrebbe essere «una tesi troppo vetero-imperialista» (il
manifesto, 18-9-2002). Si sovrappone o coincide con l’interpretazione della guerra
come imposizione dell’egemonia Usa. La versione petrolio è frequente sui media
europei ma, come ha rilevato Rifkin, non su quelli americani. In effetti le compagnie
americane hanno comprato ancora nel 2001 il 42% del petrolio che l’Iraq è riuscito ad
esportare.

D’altra parte se si trattasse davvero di una guerra per disporre di più petrolio, perché
solo ora e non dieci anni fa durante la guerra del Golfo? Quando invece il petrolio fu
bloccato, prima col dietro-front a pochi chilometri da Bagdad e soprattutto poi con le
sanzioni.

Il giornale della Confindustria si chiede preoccupato – ed è una preoccupazione
«europea» – se anche questa volta «ci sia interesse a tenere quel greggio lontano dal
mercato per molti anni» («Il Sole-24 Ore», 23-12-2002). Non si aspetta oil bonanza
neanche l’«Economist» (25-1-2003) secondo cui il motivo della guerra non è il petrolio
a buon mercato perché gli impianti petroliferi, già  in cattive condizioni dopo dieci anni
di abbandono, con la guerra peggioreranno e ci vorranno altri dieci anni per
ripristinarli, specialmente se Saddam Hussein distruggerà  i pozzi: per questo si
prevedono prezzi alti, $40 al barile, «almeno per molti anni».

E poi come sarà  gestito il petrolio dell’Iraq? «Il petrolio è degli iracheni» ha dichiarato
il segretario di stato Usa Colin Powell (22 gennaio), ma il suo capo tace: glie lo
lasceranno o glie lo prenderanno tutto? E in questo secondo caso quanto potrà  costare
tenere a bada 25 milioni di iracheni?

Dunque non è certo la guerra che assicura agli Usa petrolio a basso costo ma al
contrario il controllo del mercato che già  detengono da molti anni: infatti i paesi
veramente dipendenti dal petrolio sono i paesi produttori, che non hanno mai il
coltello dalla parte del manico; il mercato del petrolio e dei derivati sul petrolio è
dominato dalla domanda e i prezzi di riferimento (Brent e West Texas) si fanno in
Occidente. Si prospettava anche un accordo tra i paesi importatori che potrebbero
escludere alcuni paesi produttori gettandoli sul lastrico. E la Russia e altri paesi non
Opec, che sono in grado da soli di fornire tutto il petrolio necessario sostituendo il
Medio oriente, stanno ora tentando di convincere gli Usa ad acquistarne quote
maggiori: c’è infatti incertezza sull’incremento della domanda di petrolio, che è del
2,2% secondo il modello di riferimento ma potrebbe essere solo dell’1,1% in seguito
al risparmio energetico in consumi e investimenti. Perfino il Bush del «no» a Kyoto ha
stanziato 1,2 miliardi per il motore all’idrogeno. Pertanto, e per il fatto che i giacimenti
sono più vasti di quanto stimato qualche anno fa, il dominio sul mercato assicura già 
agli Usa abbondanza di petrolio e controllo dei prezzi.

Per questo, anche se la crisi economica, secondo la tesi neoclassica, derivasse dal
prezzo del petrolio – e non invece da ragioni endogene, secondo la tesi marxiana –
non avrebbe comunque senso l’occupazione dei giacimenti perché rapinare petrolio
costa molto di più che comprarlo: la guerra all’Iraq potrebbe costare fino a 2000 miliardi
di dollari, come sostiene l’economista William D. Nordhaus docente a Yale (il manifesto
del 14/2/2003), e quindi gli Usa, che spendono 100 miliardi all’anno per importare
petrolio, con 2000 miliardi potrebbero comprarne per vent’anni standosene tranquilli a
casa. Ma sfortunatamente il rapporto costi/benefici è stato calcolato su un altro piano.

D’altra parte il colonialismo è tramontato anche perché, stabilita l’egemonia militare,
era più conveniente controllare i mercati che occupare i territori. Per questo
l’occupazione coloniale dei pozzi – oggi – può diventare un’altra giustificazione per
l’ingente spesa pubblica militare.

Il keynesismo militare dunque è un tragico retaggio delle dittature che con la gestione
neoliberista si è definitivamente affermato come indispensabile alla sopravvivenza del
capitalismo. Un micidiale binomio che va riconosciuto e fermato: il terrorismo e il
petrolio sono solo le giustificazioni di turno, ci saranno ancora minacce ossessive,
apocalittiche, martellanti, e governanti che non oseranno metterle in dubbio.
L’anticomunismo delle blacklist maccartiste e l’antislamismo di oggi seguono lo stesso
copione. Questo capitalismo ha avuto bisogno quest’anno per sopravvivere di 700
miliardi di armamenti mentre ne sarebbero bastati 13 per eliminare la morte per
fame. Un cinismo trasversale che ormai solo un grande movimento può fermare.