LE PAROLE DETTE E NON DETTE CREANO LA REALTÀ. CHI LO DICE, LO È!

Lo scambio tra #Biden e #Putin, due Capi di Stato (e che Stati!), fa rabbrividire. Il primo ha dato del killer al secondo; questi ha risposto, con un non banale ragionamento, richiamando la formula infantile “Chi lo dice, lo è”. Insomma, si sono dati dell’assassino reciprocamente.
La portavoce della Casa Bianca ha derubricato il tutto ad un; “le nostre relazioni con la Russia saranno diverse, useremo un linguaggio diretto”.
Beh, no, non è così. Non è questione di stile o di franchezza. Le parole, dette e non dette, creano la realtà che abitiamo, danno forma all’ambiente in cui viviamo. Linguisti e filosofi ci avvertono da sempre. Noi stessi, lo sappiamo. Le parole sono aliti di vita, alimentano o distruggono rapporti, determinano la nostra esperienza nel mondo e con il mondo.
A parole sbagliate pronunciate e a parole buone mancanti, seguono azioni e reazioni sbagliate. Lo sappiamo, nella nostra vita, nelle nostre relazioni.
Le parole sono atti con conseguenze (al pari di decidere di mettersi alla guida ubriachi o decidere di non farlo), di cui dobbiamo essere consapevoli e che dovremmo essere in grado di prevedere. Ancor più quando si ha una responsabilità pubblica.
Avvertivo, diverso tempo fa e scrivendo di Trump e di altri plateali, quindi scontati, “nemici”, che è sbagliato e autoconsolatorio trovare e isolare in una persona, in un altro, il nemico. Non è così. Il nemico è in noi. È culturale. È in questa deriva che degrada le parole e i ragionamenti, quindi istituzioni, politica, democrazia, rapporti di gruppo e personali.
È la loro banalizzazione che porta a ritenere che battute e risposte ad effetto, toni offensivi, derisione, vilipendio o svilimento dell’altro, siano sintomi di intelligenza, capacità, lucidità, “libertà di pensiero”, consapevolezza di sé, autodeterminazione, spirito libero e anticonformista. Tanto più ad effetto, tanto più brillante e lucido!
Una tragedia! Siamo oltre il trumpismo, perché era prima di Trump e, quindi, gli è sopravvissuto.
Così, senza accorgercene, al degrado delle parole segue il degrado della realtà, l’immiserimento di rapporti pubblici e privati.
La domanda di fondo è: quale realtà vogliamo creare? Quali effetti vogliamo determinare?
E allora… respirate, scegliete con cura le parole, spiegatevi e spiegatevi ancora e meglio. O tacete!
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“In un’epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor #Palomar ha preso l’abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire, la dice; se no sta zitto. Di fatto, passa settimane e mesi interi in silenzio.
Buone occasioni per tacere non mancano mai, ma si dà pure il raro caso che il signor Palomar rimpianga di non aver detto qualcosa che avrebbe potuto dire al momento opportuno. S’accorge che i fatti hanno confermato quel che lui pensava, e che se allora avesse espresso il suo pensiero forse avrebbe avuto una qualche influenza positiva, sia pur minima, su quel che è avvenuto. In questi casi il suo animo è diviso tra il compiacimento d’aver pensato giusto e un senso di colpa per la sua eccessiva riservatezza. Sentimenti entrambi così forti, che egli è tentato d’esprimerli a parole; ma dopo essersi morsicato la lingua tre volte, anzi sei, si convince che non ha nessun motivo né d’orgoglio né di rimorso.
L’aver pensato rettamente non è un merito: statisticamente è quasi inevitabile che tra le molte idee sballate, confuse o banali che gli si presentano alla mente, qualcuna ve ne sia di perspicua o addirittura geniale; e come è venuta a lui, può esser certo che sarà venuta pure a qualcun altro.
Più controverso è il giudizio sul non aver manifestato il suo pensiero. In tempi di generale silenzio, il conformarsi al tacere dei più è certo colpevole. In tempi in cui tutti dicono troppo, l’importante non è tanto il dire la cosa giusta, che comunque si perderebbe nell’inondazione di parole, quanto il dirla partendo da premesse e implicando conseguenze che diano alla cosa detta il massimo valore. Ma allora, se il valore d’una singola affermazione sta nella continuità e coerenza del discorso in cui trova posto, la scelta possibile è solo quella tra il parlare in continuazione e il non parlare mai. Nel primo caso il signor Palomar rivelerebbe che il suo pensiero non procede in linea retta ma a zigzag, attraverso oscillazioni, smentite, correzioni, in mezzo alle quali la giustezza di quella sua affermazione si perderebbe.
Quanto alla seconda alternativa, essa implica un’arte del tacere più difficile ancora dell’arte del dire.
Infatti, anche il silenzio può essere considerato un discorso, in quanto rifiuto dell’uso che altri fanno della parola; ma il senso di questo silenzio-discorso sta nelle sue interruzioni, cioè in ciò che di tanto in tanto si dice e che dà un senso a ciò che si tace.
O meglio: un silenzio può servire a escludere certe parole oppure a tenerle in serbo perché possano essere usate in un’occasione migliore. Così come una parola detta adesso può risparmiarne cento domani oppure obbligare a dirne altre mille. «Ogni volta che mi mordo la lingua, – conclude mentalmente il signor Palomar, – devo pensare non solo a quel che sto per dire o non dire, ma a tutto ciò che se io dico o non dico sarà detto o non detto da me o dagli altri». Formulato questo pensiero, si morde la lingua e resta in silenzio.”
[Italo Calvino, Palomar]