“Ora che ci siamo ritrovati non perdiamoci di vista”

ROMA – “Ora che ci siamo ritrovati rimaniamo in contatto. Non perdiamoci di vista”. Così ha scelto di cominciare il suo lungo discorso dal palco di piazza San Giovanni Nanni Moretti.
“Noi cittadini possiamo fare politica e possiamo farla con piacere ognuno con le proprie idee ma rimanendo uniti”. Poi sottolinea la continuità  della manifestazione di oggi con il girotondo del 31 luglio difronte a Palazzo Madama e un collegamento nato in quei giorni e cresciuto in questi mesi con la classe politica di centrosinistra. Ma aggiunge: “Continueremo a delegare ai partiti, ma non sarà  più sempre una delega in bianco”.
Moretti attacca poi il centro-destra. “Berlusconi non è contro la democrazia -dice- Ne è estraneo. Gli fa perdere troppo tempo…”. E Fini: “l’ho sottovalutato politicamente, perchè l’avevo sopravvalutato moralmente”, pensando che si sarebbe opposto in qualche modo a Berlusconi. “Perchè l’ho fatto? Perchè altrimenti, se Berlusconi fosse diventato presidente della Repubblica, e speriamo che non sarà  così, mi sarei vergognato di non aver fatto niente”.
“Noi che oggi siamo qui -scandisce Moretti- il 31 luglio eravamo davanti al Senato e questa manifestazione nasce da quelle ore in cui sembrava che il ddl Cirami fosse diventato la cosa più importante in Italia. Senatori e senatrici dell’opposizione e rappresentanti dei movimenti si sono alternati sul palco. In quei giorni finalmente loro stavano facendo un’opposizione seria e noi davamo loro coraggio per le battaglie future. Non c’è stato nessuna assedio. Noi eravamo lì a difendere le istituzioni che in quei giorni la maggioranza stava umiliando dentro il palazzo. E nè c’è stato un assedio selvaggio”.
Moretti ricorda poi una serie di accuse rivolte al movimento in questi mesi: “Ci hanno detto che siamo estremisti e lo siamo perchè dimostriamo la nostra intransigenza nei confronti dei principi fondamentali della democrazia. Ci hanno detto che siamo moderati ma non passivi perchè non ci abituiamo, perchè ci piace la Costituzione. E in quanto moderati siamo stati prima perplessi poi esterrefatti poi decisamente ‘incazzati’ per quello che sta succedendo in Italia”.- Pubblicità  –
Il regista di ‘Caro diario’ ricorda poi come sono cambiate le sue convinzioni dal maggio del 2001 a oggi: “Dopo le ultime elezioni – ha detto – mi ero rassegnato a cinque anni di terribile e tranquillo e terribile governo di centro-destra anche perchè pensavo che fossero diventati meno peggio, che fossero più politici e più democratici”.
“Mi ero rassegnato, invece – prosegue Moretti – si sono dimostrati più arroganti e incapaci del previsto. Più sfacciati nell’osservare gli interessi di Berlusconi e dei suoi amici. Ma la Costituzione è ancora una miniera preziosa da cui attingere risorse per la convivenza democratica”.
E il regista attacca Berlusconi sul ‘contratto con gli italiani’ firmato da Bruno Vespa. “In quel contratto – dice – non c’era la legge sul rientro illecito dei capitali, non quella sul falso in bilancio, non quella sulle rogatorie internazionali. Sono convinto che molti italiani hanno votato Berlusconi inseguendo un sogno e si sono risvegliati dentro un incubo. La cupezza è la nota dominante di questo governo. Noi invece siamo la forza della tranquillità , noi vogliamo difendere le istituzioni democratiche”.
Poi, tocca a Fini. “Nella mia ingenuità  un pò beota – dice Moretti – pensavo che Gianfranco Fini potesse diventare autonomo, che avesse il senso dello Stato, che prima o poi dicesse che Berlusconi sul conflitto di interessi aveva torto. Ma non avevo capito che, con cinismo, Fini stava usando politicamente Berlusconi per avere pezzettini di potere. L’ho sottovalutato politicamente perchè l’avevo sopravvalutato moralmente. Ma adesso gli domando, valeva la pena sacrificare i tanti sforzi fatti per diventare democratico e poi finire ad essere uno dei tanti e nemmeno l’unico signorsì di Berlusconi? Ma ne valeva la pena?”.
L’attacco di Moretti si rivolge poi a Rocco Buttiglione. “Fini e Buttiglione, avete usato Berlusconi e il suo potere. Ora che avete qualche pezzetto di governo potete permettervi il lusso della sincerità . Ma davvero pensate che ci sia una magistratura cattiva?”
Moretti replica poi alle critiche che Berlusconi ha rivolto al movimento dei girotondi. “Come si fa a dire che è disdicevole andare in piazza a manifestare, ma come parla Berlusconi? E poi ride, e più è insicuro e più ride, ma cosa ride che non c’è niente da ridere. Quanto alla nostra manifestazione, è bellissima, allegra, ma non dobbiamo parlare solo di giustizia. La legge è uguale per tutti è lo slogan, ma anche prima del ddl Cirami a ben guardare la legge non era proprio uguale per tutti. Cosa ci è successo? Per paura di sembrare demagogici e rozzi non abbiamo detto che la nostra giustizia è di classe, che un immigrato è uno di noi.
Ha fatto bene chi ci ha criticato per la nostra assenza durante la colpevole approvazione della legge Bossi-Fini”.
In tanti in questi mesi hanno ironizzato sul movimento dei girotondi. “Perchè questo nervosismo nei confronti del nostro movimento? – dice – Perchè le battute su giro-giro-tondo e sulla regressione? Mi sono risposto che ci sono due motivi. Il primo è che noi con la nostra libertà  di giudizio, slegati da qualsiasi logica di partito e dei vertici di centrosinistra abbiamo dato fiato proprio ai partiti di centrosinistra. Il secondo motivo è che noi con la nostra manifestazione siamo riusciti a comunicare con una parte del centro-destra che non vogliamo definire razzisticamente per bene”.
‘Abbiamo parlato agli elettori di centro-destra meno pigri – prosegue Moretti – che pensano che i principi fondamentali della democrazia riguardano tutti i cittadini, non solo una parte. Trattiamo il tema della giustizia ma anche quello della scuola, della sanita’ perchè sono temi che riguardano tutti e sono felice che oggi in piazza ci siano persone che non erano mai andate ad una manifestazione. Così si possono coinvolgere le persone non retrocedendo o andando verso un fantomatico centro. Con i valori non si perdono i voti”.
“Ai partiti, ai leader di centrosinistra dico -scandisce ancora- discutiamo, discutete, ma di cose concrete e non perdete tempo a discutere sul nulla. Non fate più i capricci, discutete sui servizi pubblici, sul modo di fare bene l’opposizione, sul modo di vincere le prossime elezioni, ma non perdete più tempo in continui e logoranti scontri personalistici sui vertici: sono ripicche di cui non ce ne importa niente”.
Moretti spiega poi quale sarà  l’atteggiamento dei girotondi di qui in avanti nei confronti del centrosinistra. “Rinnoviamo loro la nostra delega, ma non sarà  sempre una delega in bianco. E visto che alla sinistra italiana capita un’occasione di governo una volta ogni secolo, questa volta fatela la legge sul conflitto di interessi… E poi tutti insieme discutiamo di scuola pubblica, di una legge antitrust. Ma non contro qualcuno, a favore della democrazia”.
Moretti critica poi la politica del governo rispetto all’informazione. “E’ troppo rozzo e grossolano ricordare che Berlusconi ha tre reti, pare sia banale e non insisto. Ma a me come cittadino non interessa una rete di sinistra, non dobbiamo contrapporre una faziosità  uguale e contraria a quella presente – dice – Io voglio un’informazione indipendente all’interno di radio e televisione decenti. Che paura vi fa una televisione così? Che paura vi faceva Radiotre? Vi fa così paura la cultura? Che bisogno c’era di smantellare una rete tanto seguita?”.
Sull’atteggiamento del premier nei confronti della democrazia Moretti aggiunge: “Berlusconi – afferma – deve ancora imparare che cos’è la democrazia e forse potrà  impararlo dalla sinistra italiana. Perchè, il Partito Comunista Italiano morì anni fa perchè non seppe comunicare che la sua storia aveva più a che fare con l’Emilia Romagna che con l’Unione Sovietica… Berlusconi è estraneo intimamente alla democrazia, non la conosce, non la capisce e gli fa perdere un sacco di tempo”.
La conclusione Moretti la riserva a una riflessione sulla sua partecipazione attiva al movimento: “Mi chiedono e mi chiedo perchè ho fatto tutto ciò? Perchè la situazione era diventata troppo seria per far finta di niente e perchè se dovesse diventare, Dio non voglia, presidente della Repubblica, cioè di tutti gli italiani, l’uomo più di parte che c’è in circolazione oggi in Italia, perchè offende almeno la metà  dei cittadini italiani, io ripensandoci a distanza di anni proverei vergogna”.
(14 settembre 2002)

Due considerazioni sulla giornata di oggi.

ichetti.
Però, nella piazza i compagni stanno anche per dirgliene quattro in faccia a tutti quelli che siedono alla stessa mensa del neoliberismo nostrano e mondiale. I vari dalema, blair, rutelli, fassino, bianco: gli esperti, i saggi.
La piazza ne ha anche per loro.
Quello che mi chiedo è: perchè fra quelli che ‘stanno’ (militano?) nei p

Torna la brioche-campionato. Che sia la volta dell’Inter?

Salvati dal provvidenziale intervento del governo che, dopo una dura trattativa con se stesso ha convinto se stesso, cioé la sua Rai, ad accettare le offerte di se stesso, possiamo gustarci il ritorno del nostro amato pallone. Non che ne avessimo mai dubitato, perchè non era pensabile che in questo autunno 2002 di schifezza economica nazionale e morale, Maria Antonietta potesse lasciarci senza la brioche del pallone. Nulla è cambiato a corte, naturalmente, i conti e i bilanci restano un disastro, i matti restano matti, i Ronaldo vanno e vengono,la campagnia acquisti è stata un poker di bari raccontato da presunti giornalisti degni di loro, ma sabato ascolteremo il fischietto liberatorio. Come gridava lo zio matto appollaiato su un albero nell’Amarcord di Fellini: voglio una paaaallaaaaaa…. L’avrete, venite giຠdall’albero adesso, fate i bravi e tornate in manicomio. Gli abbonamenti a Milan e Inter hanno raggiunto cifre record. Poi non vi lamentate. Non esistono truffatori se non ci sono fessi disposti a farsi truffare.
Naturalmente, questo è il momento dei pronostici e nessun vero esperto di calcio, come Max il mio pastore tedesco, puà³ sottrarvisi. Lo scorso anno, il Dentone pronosticà³, con l’umile consenso del suo assistente umano, la vittoria finale della Juve (è in archivio) e, seppure non fosse prevedibile lo spappolamento della ridicola Inter all’Olimpico, il successo non è stato poi tanto sorprendente. Un Campionato non è un torneo dove basta azzeccare tre o quattro partite per vincere, è una catena di montaggio, dove il risultato finale è il prodotto di accurati assemblaggi. Prendere un pistone dalla Rolls Royce, un freno dalla Ferrari, una rotella del cambio dalla Bmw e il claxon dalla Mercedes e sperare di mettere insieme una grande automobile, non funziona.
Dunque, ecco i pronostici per la stagione Serie Nutella da Spalmare 2002/3, conosciuta anche come la Serie A italiana:
INTER. Favoritissima d’obbligo. Lo scudetto è suo e non per ragioni tecniche, ma per salvare il Paese in questa fase difficile della sua economia e della sua democrazia da un’altra alluvione di lacrime versate in pubblico di tifosi interisti VIP (Veri Important Piagnons) che hanno fatto della imbranatura cronica della loro squadra e della commovente, generosa, onesta inettitudine del suo gruppo dirigente una fiorente industria televisiva e letteraria. Vincete qualcosa, in nome di Dio, e abbiate pietà¡ oltre che un po’ di pudore. Se si piangono addosso questi Interisti che buttano 900 miliardi per arrivare a comperare zampognari come Gresko e assumere allenatori come Lucescu, a quali uragani di lacrime avrebbero diritto i tifosi del Napoli, della Reggina, del Torino, del Venezia, del Palermo etc etc? O contano soltalto i piagnistei di coloro che possono inzuppare giornali e teleschermi nazionali con le loro paturnie, gli altri zitti?
MILAN. Secondo posto assicurato. Come ha già¡ anticipato il fedele Lothar Galliani, il Milan punta senza falsi pudori al secondo posto, perchè il terzo, con quella squadra, sarebbe patetico e il primo, con quel potere politico alle spalle, sarebbe rischioso. Dare anche lo scudetto a chi già¡ possiede il governo, il Parlamento, quattro o cinque partiti, il codice penale, l’ordine degli avvocati, la televisione, la massima casa editrice italiana, il primo settimanale, la prima concessionaria di pubblicità¡, un bouquet di quotidiani, una compagnia di assicurazioni, la Lega calcio, tutti i seggi della Sicilia, mezza Sardegna e un pezzo delle isole Bermuda potrebbe suscitare negli elettori di altre squadre il sospetto che l’Italia sia diventata la Romania di Ceaucescu dove la Stella Rossa vinceva sempre. Un problema per Berlusconi, perchè con la Costituzione si puà³ scherzare, in Italia, ma con il fuorigioco no. Il Milan cercherà¡ di buttarsi sull’Europa e, alla prima che mi fai, di buttare Ancelotti, che è l’unico licenziabile dell’harem di Milanello, dove regnano da anni gli onnipotenti eunuchi dell’Imperatore Cinese con le loro palline chiuse, per ricordo, dentro la tazzina.
ROMA. Lo spettacolo di Sensi capo barricadero, er Robespierre de Trigoria in bustina di astrakan e cappottino di cammello lanciato alla testa dei tele sanculotti contro la Bastiglia di Galliani e Moggi è stato uno dei pochi esilaranti siparietti di questa deprimente estate post Coreana, insieme con il tira-e-molla per la Mosca più Muscolosa del Mondo, Davids. La Roma si affida a Guardiola, sperando che non sia un’altra di quelle patacche spagnole che hanno ammollato a Milan e Lazio, confida nella seconda, o terza, o quarta giovinezza di Batistuta e nella prima giovinezza di Cassano, che quest’anno potrebbe essere finalmente maturare dall’asilo alle elementari. Ma il latte della Lupa sa un po’di aceto e il mento di Capello, per il quale le nuove leggi renderanno obbligatorio il porto d’armi tanto è ormai aggressivo, sembra pronto a esplodere, se il Fabius Maximus Incazzosissimus dovesse annusare che con questa Roma non puà³ più vincere ed è arrivato il momento di vendere i suoi servizi ad altri.
JUVENTUS. Nella certezza incrollabile che questo sarà  il campionato della definitiva rinascita di Del Pierino che ha tagliato i leggiadri boccoli (ho detto boccoli, non broccoli, niente lettere offese per l’ex puttino del Lingotto vittimizzato dai giornalisti cattivoni, per favore), la Juve è come sempre la squadra più seria, più cupa e più robusta. Ora che il Milan ha in tasca anche la Lega, forse finirà¡ la menata annosa del “Grande Vecchio” juventino che decide i campionati, anche se Gheddafy proprio l’ultimo dei mendicanti non è (telefonare a Kissinger: non si potrebbe levare Gheddafy dalla lista americana ufficiale degli Stati “sponsors del Terrorismo” dove figura dal 1979? È cosà­ poco chic avere un finanziatore messo nella stessa classe dei Saddam Hussein e dei Sudanesi). Se la Fiat avesse saputo in questi anni progettare le automobili come ha saputo progettare le squadre di calcio (eccellente il colpo Di Vaio), oggi i dirigenti della Mercedes viaggerebbero in Stilo Fiat. Abbiamo preso un impegno d’onore con Telefono Azzurro a favore di Baby Moratti e del lacrimatoio interista, altrimenti la Juve sarebbe da dare ancora la favorita.
LAZIO. E vuoi vedere che questa squadra diroccata, squattrinata, demolita, svenduta, ritrova la voglia di giocare al calcio, si ricorda di non essere poi cosà­ scarsa e fa divertire i suoi tifosi facendo sgambetti (legali) ad avversari più boriosi? Ai giocatori, Mancini, detto “deroga”, finora piace (ma l’ha presa la patente? È in regola? E in regola con che cosa, in un calcio che si cambia le regole come le mutande, almeno speriamo?) perchè è ancora uno di loro e non uno di quei tromboni da panca che credono di salvare il mondo spostando un terzino a destra o a sinistra o un faccia triste come Zaccheroni. Se cominciano a divertirsi, i Laziali di Micragnotti potrebbero essere il Chievo “politically scorrect” ( come diceva l’ anglicista Casini) del campionato 2003.
LE ALTRE. Modena in testa, che è la mia squadra preferita e comincia il Campionato affrontando Milan e Roma, che sarebbe l’equivalente del Lussemburgo che dichiara guerra agli Stati Uniti e alla Cina, le altre sono in campo soltanto per riempire la griglia e fare come le Arrows, le Sauber, le Minardi e le Bart in Formula Uno, essere i birilli mobili tra i quali Ferrari e McLaren e Bmw possano zigzagare sulla via del traguardo. L’unico interesse, a parte la solita rissa tra i capponi che si beccano per non andare in B, è stabilire chi sarà , tra queste disgraziate che devono fare la squadra con i pacchi dono dell’Onu e con un bilancio pari al costo del polpaccio sinistro di Nesta o di Recoba, il nuovo Chievo 02/03.
Un Chievo ci deve essere per forza, per dare una parvenza di credibilità¡ al calcio e farci credere alle favole, ma il Chievo-bis mi convince poco. Il Bologna di Guidolin? A primavera i troppi cappelletti e coteconi mangiati d’inverno pesano nelle gambe. L’Atalanta? Ha troppi giocatori rimasti a Bergamo solo perchè nessuno li ha comperati. Il Modena? Magari, ma il delizioso catenaccione di DeBiasi che ha dominato la B deve adesso fare i conti con arbitri che faranno piovere punizioni dal limite e tesserine giallo-rosse sui suoi difensori per proteggere i conti dei miliardari. Il Como? Dopo tutto il casino anti Lega fatto dal suo presidente, non è ben visto L’Empoli? O suvvia, bimbini, ‘un diciamo bischerate. Il Brescia di “ginocchio antico”, io speriamo che non me lo rompo di nuovo? Il Toro dell’Unità¡ Coronarica Vecchio Cuore a Brandelli? La seria e per bene Reggina, l’unica squadra del Sud che il “gomblotto” del Nord si è dimenticato di buttare fuori dalla prima serie? Magari.
Proviamo invece col Pérma, che non è un mezzo materasso Permaflex, ma è la squadra di Parma. Nessuno la celebra più, come negli anni scorsi, buon segno. Il mullah Arrigo sembra essersi un po’ calmato, ora che non deve più andare in TV ogni due giorni a dire che lui è il solo che abbia capito che cos’è il calzio moderno e ha avuto tempo di convertire i suoi mujaheddin della ripartenze. L’allenatore è decente, senza essere grande, come deve essere uno che ha Arrighetto sulla testa. La rosa è intelligente, senza essere presuntuosa come in passato. I giocatori sono tutti all’ultima stazione prima del torneo estivo “Gelateria Vesuvio” di Viserba o alla prima fermata della carriera, come Brighi, se sapranno prendere il treno in corsa. E i Tanzi sono tra i più seri, nella banda dei presidenti italiani, il che non è gran dire. Ma tutto, come direbbero Einstein fissando pensoso l’universo e il mio cane guardando perplesso la razione ridotta di pappa (sta ingrassando) è sempre relativo.
Buone brioches a tutti noi, fratelli sudditi della Maria Antonietta del pallone.
(13 settembre 2002)

GIROTONDI A ROMA, PARTECIPA UN GRUPPO DI ALTAMURA

Altamura / Puglia / Politica / 11-09-2002 (10:34:43)

Anche un folto gruppo di Altamura parteciperà  alla Festa di Protesta per la Giustizia e la Democrazia, la manifestazione organizzata dai girotondisti sabato 14 settembre in piazza San Giovanni a Roma. Già  quasi al completo il pullman organizzato dall’associazione culturale Piazza che raccoglie prenotazioni e adesioni ai numeri 3388158848 e 335710692. Possibile, se le richieste lo rendessero necessario, l’organizzazione di un secondo mezzo. Hanno aderito anche alcuni cittadini di Matera.
Sul palco della piazza nella quale si sono svolte le storiche manifestazioni della sinistra i protagonisti delle proteste della società  civile di questi ultimi mesi contro il governo Berlusconi. Non ci saranno interventi di rappresentanti politici e di partito. Verrà  posto l’accento soprattutto sulle questioni della giustizia e sugli ultimi provvedimenti del governo (leggi Cirami e Pittelli, depenalizzazione del falso in bilancio, rientro dei capitali dall’estero) e sull’informazione.
Interverranno Pancho Pardi, Paolo Flores D’Arcais, Silvia Bonucci e soprattutto quello che è diventato il leader dei girotondi il regista e attore Nanni Moretti. Ma hanno dato la loro adesione (e alcuni si esibiranno in piazza) molti uomini di spettacolo come Francesco De Gregori, Roberto Vecchioni, Luca Barbarossa, Avion Travel, Fiorella Mannoia, i fratelli Guzzanti, Dario Fo, Franca Rame, Roberto Benigni ecc. Il pullmann partirà  da Piazza Zanardelli alle 06.00 del mattino del 14 per tornare in tarda nottata nella stessa giornata. Costo della partecipazione 17 euro. A richiesta è possibile prenotare una piccola colazione nell’enoteca Corsi al centro di Roma. La manifestazione inizierà  alle 14.00 e proseguirà  per tutta la giornata

QUESTO E’ IL PREZZO DA PAGARE PER AVERE PROTEZIONE DAL FEUDATARIO U.S.A.?

A Bologna vengono arrestate alcune persone che commentavano un quadro esercitando quel diritto alla critica e alla libera manifestazione del pensiero (riconosciuto non solo ai cittadini strettamente), l’accusa: potenziali terroristi islamici.
In Israele e in Palestina si sparano e si ammazzano persone inermi.
Negli U.S.A., base militare di Guantanamo, vengono detenute e torturate centinaia di afghani senza alcuna accusa se non quella di essere soldati dell’ex esercito regolare dell’Afghanistan.
In Spagna un partito politico rappresentato al Parlamento Europeo viene dichiarato illegale e le sue sedi chiuse con un provvedimento giudiziario.
Domani potranno definire quale terrorista chiunque si azzardi a mettere in discussione la logica dominante e le formule in cui si esprime.

Da www.italia.indymedia.it l’intervento di un rappresentante di Batasuna, affinché possano leggersi anche le loro ragioni, occultate (da ultimo) dalla mondanità  di un qualsiasi matrimonio spagnolo.

Illegalizzazione di Batasuna, salto qualitativo nella ristrutturazione statale.

La tesi qui difesa sostiene che l’illegalità  di Batasuna è necessaria per assicurare la complessa e contraddittoria ristrutturazione dello Stato spagnolo. Ristrutturazione destinata a impedire che la sua classe dominante continui a retrocedere nella gerarchia imperialista, avendo diminuito i propri tassi di accumulazione di ricchezze, avendo perso potere politico ed essendo ogni volta più incapace di contenere lo scollamento della propria “unità  nazionale”. Nonostante questa ristrutturazione sia stata formulata con i propri obiettivi irrinunciabili durante il periodo della dittatura di Franco, la si è dovuta ritoccare in seguito in diversi momenti per migliorarla. Uno di questi ritocchi è cominciato agli inizi del 1990 e come tutti i precedenti si è scontrato con la forza e la coerenza dellasinistra indipendentista basca e con il processo di costruzione nazionale di Euskal Herria.
L’analisi del processo che porta all’illegalità  per Batasuna, prevede come minimo tre livelli di studio, ogni volta più profondi, fino ad immergersi nel nucleo del problema. Il primo è il più formale e superficiale, in riferimento all’inaccettabile contenuto antidemocratico dell’illegalizzazione, ed è un contenuto che non sfugge a nessuno per la sua mostruosità . Il secondo, già  qualcosa di più interno e occulto, fa riferimento al processo sotterraneo, che prende vita dall’illegalizzazione e che porta in superficie una serie di attacchi repressivi che ci riportano al PSOE nel Governo di Madrid. Il terzo ci scopre l’ultima ragione dell’illegalizzazione, ci introduce nel contenuto dell’oppressione nazionale, di classe e di genere dello Stato spagnolo e spiega cosa sta succedendo e perché, in conseguenza dell’acutizzarsi delle sue contraddizioni interne. Il fatto che il primo livello di analisi, quello della manifesta barbaria antidemocratica dell’illegalizzazione, sia il più facile ed immediato da realizzare non suppone che abbia meno importanza. Ne ha e molta. Sopprimere di colpo diritti minimi ed elementari che garantiscono la partecipazione sociopolitica e culturale di un settore sociale caratterizzato dalle proprie rivendicazioni e mobilitazioni, equivale a minacciare ed avvertire gli altri settori, non ugualmente attivi, che possono correre lo stesso pericolo se un giorno radicalizzassero le proprie posizioni. Sopprimere i diritti di un gruppo del settore sociale che offre costantemente una soluzione democratica ai problemi storici irrisolti, vuole dire ufficializzare una situazione repressiva, elevandola alla massima tensione, e affondare la società  in un pantano di incertezza, angoscia e paura. Di fatto questa situazione già  esiste dopo che il governo ha chiuso giornali, riviste e radio, ha reso illegali organizzazioni, ha arrestato centinaia di persone e ne ha incarcerate decine, dando totale libertà  alla tortura più selvaggia e sessista. L’illegalizzazione di Batasuna è un passo qualitativo che estende questa dinamica a tutta la società . In questa cornice, chi non vuole avere problemi non solo dovrà  dimostrare di essere fedele, obbediente e sottomesso, stando attento a non commettere atti che lo rendano un sospettabile, convertendosi nel proprio poliziotto e autocensurandosi, controllando sé stesso e soprattutto le persone circostanti. Rinascono dal museo degli orrori gli atroci sistemi dei despoti, dei tiranni, dei cesari, dei ragnanti, dei sultani, di imperatori e dittatori di tutte le epoche, sospettosi della propria stessa ombra.
Rendendo illegale Batasuna, il governo vuole dimostrare forza, decisione e solidità  ma, approfondendo già  il secondo livello di analisi, scopriamo che a dispetto di ciò che si crede comunemente, un regime è tanto più debole nella sua capacità  di rispondere alle crisi che soffre quanto minore è la sua adattabilità , malleabilità  e potere di integrazione. Anche prima che la borghesia democratica dei secoli XVII-XVIII assumesse il principio di buona ed effettiva dominazione senza strepitii, lo stesso principio era stato scoperto da riformatori greci e romani. Tuttavia questo metodo per essere applicato ha bisogno di condizioni obiettive che lo facilitino, ma non è questa la condizione effettiva della società  spagnola, non è questa affatto. Il PP (Partido Popular) è arrivato al governo di Madrid in una situazione maggiormente deteriorata e grave rispetto a quella del 1882 (quando trionfò il PSOE), per quanto riguarda gli interessi del capitalismo spagnolo. Giova ricordare che nella prima metà  del periodo 1971-70, all’interno del franchismo ci furono delle proposte di adattamento ai cambi interni ed esterni; che e metà  di questa decade si rinunciò all’opposizione e si impose la continuità  con i pilastri essenziali del potere di sempre: proprietà  privata dei mezzi di produzione, appropriazione individuale da parte della borghesia del grosso del prodotto del lavoro sociale, unità  indiscussa dello Stato spagnolo e ruolo strategico delle forze armate. Il re che Franco nominò, fu elevato a pietra miliare della montatura costituzionalista, ma verso la fine del periodo 1971-80 le impalcature erano pericolanti, si preparava più di un colpo si stato, si minava da dentro la UDC e un settore negoziava le condizioni perché il PSOE, partito socialista, arrivasse al Governo. Per non farla lunga, agli inizi del periodo 1981-90, la crisi era tremenda e dopo una serie di vicissitudini il PSOE arrivò al governo, pretendendo di sbarrare la strada al processo di decentralizzazione. Regionalista – Stato delle autonomie – così come si impose immediatamente dopo il 23 febbraio del 1981; volle razionalizzare la corrotta e inefficace burocrazia statale; volle modernizzare l’attardato capitalismo statale e pretese di adeguare il nazionalismo spagnolo alle condizioni del momento. Crollò sostanzialmente, dopo che agli inizi del periodo 1991-2000 l’unità  nazionale dello Stato spagnolo non solo non era assicurata, ma era spaccata dalle pressioni delle borghesie periferiche e dall’aumento dei sentimenti nazionali, culturali e di identità . In più anche il PSOE non ha smesso di procedere attraverso la corruzione e l’ inettitudine burocratica, fino a corrompere sé stesso fino al midollo. Inoltre, come se non bastasse, i cambi del capitalismo mondiale ed europeo hanno minacciato fortemente la borghesia spagnola e non si è potuto neanche ricreare lo screditato nazionalismo spagnolo. A dispetto di questo, gli ultimi anni del mandato del governo socialista segnarono un irrigidimento dell’attività  repressiva, divenuta sistematica per questi quattro problemi ed il governo stesso venne attaccato dalla borghesia che lo aveva aiutato nella scalata al potere. Il famoso “complotto” contro il PSOE era in atto, come si è stato dimostrato in seguito e il Partido Popular aveva la missione di risolvere finalmente ciò che non avevano risolto il PSOE e la UCD, e ciò che lo stesso franchismo aveva congelato sotto un oceano di sangue gelato ma che non era riuscito a sterminare definitivamente.
Agli inizi della decade dei ’90 il capitalismo ha accelerato la strategia di uscita dalla crisi iniziata nel 1968-1973 e che, con alti e bassi e recuperi regionali o transitori, si è mantenuta tale fino ad oggi. Che dalla crisi non si sia usciti e che si è sprofondati da allora, non possiamo analizzarlo adesso, ma ciò spiega in parte l’accelerazione della strategia repressiva del PP. L’altra parte della spiegazione sta nell’acutizzarsi delle contraddizioni strutturali, che minano lo stato spagnolo come effetto del tracollo del PSOE nel risolverle. L’illegalizzazione di Batasuna sembra da questo momento una priorità  immediata per la Stato spagnolo, priorità  già  annunciata nel 1994, senza maggiori precisazioni, quando le forze repressive aumentano i propri attacchi contro EGIN, LAB, JARRAI, KAS, etc., all’interno di una dinamica accelerata dalla fine del periodo 1981-1990, con il PSOE ancora al governo. Arrivando alla seconda metà  della decade degli anni ’90, con i suoi bruschi e apparentemente cambi congiunturali-dalla sospensione delle proprie azioni da parte dell’ETA, durante una settimana del 1996, l’attacco repressivo contro EGIN e HB, la fascistada dell’estate del 1997, la firma dell’accordo di Lizarra-Garazi del 1998, il cessate il fuoco unilaterale da parte dell’ETA, i contatti tra Eta e Governo, le provocazioni del Governo e del PSOE, la passività  e la marcia dietro il PNV, la pazienza dell’ETA e i suoi avvertimenti, gli errori della sinistra indipendentista basca, il ritorno alle attività  armate da parte dell’ETA, la controffensiva generale del PP-PSOE, le elezioni nella CAV, etc.,– a dispetto di questi cambi appariva sempre più chiaramente l’esistenza del momento storico che si attraversava attraverso i cambi delle sue congiunture passeggere. In questo senso l’illegalizzazione di Batasuna si converte nella priorità  dello stato, per uscire dal blocco in cui si trova la sua ristrutturazione. Prima di passare all’analisi che scaturisce da questo tema bisogna insistere che è un’urgenza dello Stato e non solo del PP. Si sbaglia chi crede che il PSOE non fosse arrivato ad una situazione simile. Il PSOE è invece compartecipe cosciente de e nella strategia del PP, distanziandosi in parte dalla forma dell’illegalizzazione, ma non nel suo contenuto e nel suo obiettivo. Dove il PP ha intensificato, accelerato e ampliato il sistema repressivo, lo ha fatto contando sull’avallo del PSOE, sulle basi già  create da quello, ripercorrendo l’intellettualità  del PSOE e mobilitando sindacati e collettivi sociali vicini al PSOE come l’UGT (Unià³n General de Trabajadores) e altri vicini a IU (Izquierda Unida) come il CCOO e tantissime ONG. Ora che queste ed altre burocrazie, gruppi e collettivi che da tempo hanno abbandonato i propri ideali e si integrano al meglio nel sistema dominante, collaborano con fervore all’attacco alle libertà  di base, questo passo all’indietro si comprenderà  tornando a studiare l’evoluzione storica delle contraddizioni strutturali dello Stato spagnolo, il che ci porta al terzo livello di analisi. In effetti il capitalismo spagnolo pare stia perdendo competitività  nella lotta cannibale con altre borghesie più forti. Tutti i dati indicano un aumento dei rischi del definitivo ruolo periferico all’interno dell’Unione Europea, il che potrebbe essere una catastrofe per la borghesia spagnola, un disastro che chiuderebbe tutte le possibilità  di recupero sostenuto e competitivo del tasso di beneficio, che è ciò di cui si tratta in ultima istanza, per lo meno durante un’altra onda o fase storica del capitalismo mondiale. Come sostiene il re che Franco nominò, la crisi spagnola ebbe inizio nel 1713 ed occorre dire che la borghesia che comanda su questo re è cosciente che la crisi storica esiste realmente; si esprime nelle contraddizioni strutturali che minano il suo Stato dal secolo XVII, che vanno crescendo da quel momento a dispetto dei brutali e sanguinari mezzi per risolverle; che i mutamenti del capitalismo mondiale e le crisi dello Stato stanno esaurendo il tempo di reazione. E’ molto significativo che gli argomenti del PCE e del PSOE per arrendersi davanti alla borghesia nel 1974-1978 siano essenzialmente identici a quelli menzionati oggi per appoggiare direttamente o indirettamente l’illegalizzazione di Batasuna. Allora bisognava “salvare la democrazia”: oggi bisogna “salvare la costituzione”. Ieri come oggi, ciò che sta alla base del problema è la continuità  dello Stato spagnolo come spazio simbolico-materiale dell’accumulazione di capitale. Dal 1600 l’incipiente e debole borghesia nazionale ha mostrato una permanente incapacità  nel prendere il potere politico e lanciare un’industrializzazione estensiva ed intensiva sul territorio, un’industrializzazione endogena, autonoma e dotata di una tecnologia propria e garantita dall’accumulazione di un capitale proprio. Le quattro contraddizioni che si analizzano – debolezza dello Stato-nazione spagnolo, tendenza alla promozione delle rivendicazioni delle nazioni oppresse, derivano da tale incapacità  e la acutizzano. Ma nei momenti di massima gravità  le contraddizioni tendono a concentrarsi in due grandi gruppi di problemi esplosivi interattivi, ma con velocità  differenti, per effetto della legge dello sviluppo diseguale e combinato. Ci riferiamo all’oppressione nazionale e allo sfruttamento di classe – lo sfruttamento di genere è presente in entrambe – di modo che, periodicamente, quando questi gruppi di problemi esplosivi si intrecciano e coincidono con crisi esterne, vacillano e tremano le profonde basi dello Stato spagnolo, e la borghesia lancia i propri eserciti in strada. Nel 1931-39 si è vissuta una crisi simile, per non retrocedere nell’analisi e un’altra cominciò nel 1969 con il suo inizio politico nel Consiglio di Guerra di Burgos, e si è ufficializzata con l’azione armata che uccise Carcero Blanco. L’ETA stava nell’epicentro di entrambi gli eventi. Tutta la decade degli anni ’70 è stata segnata dalla dialettica dell’interpretazione di entrambe le contraddizioni esplosive. Tra tutte le sinistre che allora pullulavano nello Stato, solo l’indipendentista basca ha saputo teorizzare correttamente l’interpretazione sintetizzata nella V Assemblea dell’ETA, nel fondere la lotta di liberazione nazionale con la lotta socialista del popolo dei lavoratori. L’arrendevolezza e la tradizione di quasi tutte le sinistre restanti ha mantenuto la borghesia spagnola al potere ma non risolse il problema storico di fondo. La classe operaia statale è stata sconfitta e la società  sottomessa ad un alienazione di massa e ad una passività  sconquassante. Salvo lotte isolate e difensive, si è imposto l’oblio e il si salvi chi può. Lo yuppismo e il postmodernismo, che furono insieme la corruzione e le arrampicate sociali, e che trovarono nel PP il loro nuovo ecosistema locale e il microclima di arricchimento, appaiono oggi come i portavoce dell’etica e della democrazia. Durante buona parte degli anni ’80 e la metà  dei ’90 solo la sinistra indipendentista basca e alcune rispettabili lotte nello Stato mantennero la coerenza e la dignità , ma il loro eroismo non è stato vano ed inutile perché da alcuni anni rinascono le lotte, sorgono nuovi collettivi, si constata il tracollo del modello imposto da un quarto di secolo. Questa nuova ondata si produce, inoltre, quando le pressioni esterne portano alla luce la debacle nella modernizzazione del capitalismo statale. La borghesia ed il riformismo statale conoscono il doppio problema e anche le borghesie regionali catalana e basca, che antepongono i loro interessi di classe a qualsiasi altra cosa. Da parte loro intanto la borghesia basca rappresentata nel PNV e la piccola borghesia rappresentata nella EA attendono egoisticamernte che Batasuna venga dichiarata illegale, in modo da ingrossare il loro borsone di voti e denaro. Anche i gruppetti che sono stati di sinistra, che hanno partecipato al Lizarra-Garzi e che ora sono restati fuori, attendono come gli avvoltoi. Lo Stato crede erroneamente che la illegalizzazione di Batasuna sconfiggerà  definitivamente la sinistra indipendentista basca, accrescerà  la docilità  mielosa del PNV-EA-IU, sotto minaccia di diventare anch’esse illegali, taglierà  di netto la nuova ondata di lotte e ristrutturerà  il proprio dominio attraverso i secoli, inserendo definitivamente “la nuova Spagna” all’interno del capitalismo mondiale ed europeo.

Ià±aki Gil de San Vicente Membro dell’ufficio di relazioni internazionali di Batasuna

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Tra i divi della Mostra l’Italia delle ingiustizie

dal nostro inviato CLAUDIA MORGOGLIONE

VENEZIA – Italia, anno 2002. L’Italia vera, raccontata quotidianamente nelle pagine dei giornali. L’Italia delle eterne ingiustizie, delle mille emergenze, dell’intolleranza. Ma anche delle lotte per un futuro diverso. C’è anche questo, tra le pieghe di una Mostra del cinema tutta concentrata sui film “grandi”, sui divi più attesi. Una specie di tesoro nascosto (in termini di riflessione sull’attualità ) che vale senz’altro la pena di scoprire.
A far emergere questo lato “alternativo” del fare cinema, più aderente alla realtà  e più interessato al nostro presente così com’è, sono i documentari presentati nella sezione più innovativa della rassegna, chiamata “Nuovi territori”. Alcuni di scena oggi, altri in programma nei prossimi giorni. Ecco i più interessanti.
La vergogna di Marghera
Uno dei grandi scandali italiani: lo stabilimento petrolchimico che per anni inquina e intossica persone e ambiente, centinaia di dipendenti morti per le esalazioni, un lungo processo, dirigenti imputati di omicidio preterintenzionale e disastro colposo, nessun colpevole. Come se quella sistematica violazione della salute pubblica non fosse mai esistita. Per non dimenticare, arriva adesso Porto Marghera, Venezia: un inganno letale. Lungo 56 minuti, diretto da Paolo Bonaldi, racconta la lotta di un operaio, Gabriele Bertolozzo. La sua battaglia, la sistematica raccolta di prove contro chi poteva prevenire la tragedia. E invece è stato recentemente assolto in tribunale.
Insieme a lui, sul grande schermo, diversi personaggi noti, da Felice Casson a Gianfranco Bettin. “Sono cresciuto in uno dei quartieri a ridosso delle fabbriche”, racconta il regista, “lo si vede anche nel film. Perciò volevo che il mondo sapesse quanto pesa sulla Laguna e su Venezia la scelta scellerata e irresponsabile di cinquant’anni di produzione selvaggia”. Insomma, un’esigenza personale. Ma forse anche un tributo che la Mostra, che si affaccia su quella stessa Laguna, doveva ai suoi concittadini.
Storia di un immigrato particolare
Girato da Guido Chiesa, già  regista del film Il partigiano Johnny, il breve documentario Il Contratto (dura 15 minuti) porta sugli schermi del Lido la storia di Jadelin, venticinquenne che vive a Bologna. Treccine rasta, pelle nera, il ragazzo rischia adesso l’espulsione. Una vicenda come tante? In un certo senso sì. Ma a renderla paradossale è il fatto che Jadelin non è un immigrato, diciamo così, dell’ultima ora. Perché in realtà  vive in Italia da 21 anni, da quando è arrivato per raggiungere il padre: un ricco immigrato congolese che viveva in Romagna.
A Imola, il giovane extracomunitario trascorre infanzia e giovinezza in una casa lussuosa, con tanto di Jaguar e maggiordomo. Poi però la situazione familiare cambia, i genitori fanno bancarotta e lasciano il Paese. E così adesso, per una serie di inadempienze burocratiche e di assurdità  nella legislazione, Jadelin (tutta una vita trascorsa in Romagna, come mostra il puro accento imolese) potrebbe essere espulso. Nell’Italia sempre più intollerante verso gli extracomunitaria, nell’Italia della legge Bossi-Fini. “Ho deciso di narrare la sua storia”, racconta Chiesa, “perché lui è un personaggio che sfugge a tutte le categorie della sociologia da mass media. Dimostra come un discorso sull’immigrazione non può usare solo parametri economici o di pubblica sicurezza”.
Il viaggio del Disobbedienti
Mezz’ora di documentario e un titolo efficace (Con la Palestina negli occhi) per raccontare un’esperienza in cui si intrecciano gli umori profondi di una fetta della società  civile italiana e una delle ferite più gravi dello scenario internazionale. Girato da Vittorio Giorno e Federico Mariani, questo mediometraggio racconta infatti il periodo dal 17 marzo al 6 aprile 2002, quando nel pieno del durissimo assedio israeliano ai Territori, duecento Disobbedienti del nostro Paese andarono proprio in quella zona del mondo.
Mentre le aree sotto il controllo dell’Anp venivano occupate, e il presidente Yasser Arafat era ostaggio nel suo bunker, gli uomini e le donne di Genova e di Porto Alegre raccontano la loro visione della realtà . Quella per cui, come dice il titolo del film collettivo sul G8, Un altro mondo è possibile.
(3 settembre 2002)

Liscia, Privata, o …

Cinque anni fa la città  di Adelaide, in Australia, rischiò di restare soffocata dagli odori nauseabondi che esalavano dai tombini. L’azienda che si era impegnata a depurare le acque aveva perso il controllo della rete fognante e per tre mesi nella zona aleggiarono aromi pestilenziali. Circa un anno dopo, nella stessa città  si diffuse l’allarme di una contaminazione dell’acquedotto. «Bollite l’acqua prima di berla», fu la raccomandazione del sindaco, e fu il boom delle acque minerali. La gente era esasperata, l’inchiesta delle autorità  fu inevitabile. Le indagini produssero un verdetto inequivocabile: «I disagi provocati alla popolazione sono dovuti a una politica di sistematica riduzione dei costi di gestione dei servizi» da parte delle aziende appaltatrici. Vale a dire l’asportazione chirurgica di quei settori che hanno il compito di monitorare la qualità  delle acque e prevenire il collasso della rete idrica.

A Buenos Aires invece la rete funziona alla perfezione, ma in alcuni quartieri a Sud della capitale argentina l’acqua non arriva più. L’azienda appaltatrice ha deciso di lasciare a secco cinque milioni di persone, fino a quando non pagheranno le bollette. Poco importa che in Argentina, come sanno tutti, le banche hanno fatto sparire i soldi e nessuno ha in tasca i soldi per pagare. L’azienda non è tenuta a fornire servizi gratis. Fine del discorso.

Sarebbe troppo facile liquidare con questi due episodi la questione della privatizzazione dei servizi legati all’acqua. A Buenos Aires e ad Adelaide sono emersi due degli aspetti più controversi del fenomeno. Uno: privatizzare significa affidarsi ad aziende che, per abbattere i costi di gestione, tendono a risparmiare sui controlli e sulla sicurezza. Due: con la privatizzazione l’acqua diventa una merce e non è più un diritto. I diritti sono gratis, le merci si pagano.

Ciò che si privatizza, ad essere precisi, non è proprio l’acqua, ma il servizio di fornitura, o quello di gestione degli scarichi, o di depurazione, o tutti questi servizi insieme. Un’azienda privata firma quindi un contratto con lo Stato e si impegna e svolgere una serie di compiti al posto suo. Le risorse idriche, invece, restano sotto il controllo diretto dello Stato.

L’idea non è affatto nuova, specialmente in Europa. Sono europee le aziende leader del settore a livello mondiale. Come la Vivendi Water, o Générale des Eaux, che fa parte del colosso francese Vivendi, attrezzata anche per progettare e fabbricare sistemi di trattamento dell’acqua. In tutto il mondo ben 110 milioni di persone pagano la bolletta dell’acqua a Vivendi, mentre altre decine di milioni la pagano a un’altra azienda francese, Ondeo, erede della Suez-Lyonnaise des Eaux. Si affacciano timidamente sul mercato anche le aziende italiane, come l’Acea di Roma, che discende dalla società  pubblica che da decenni fornisce agli abitanti della capitale l’acqua, il gas e la corrente elettrica, e l’Acquedotto Pugliese (Aqp), che da azienda di stato è diventato società  privata lo scorso febbraio, con l’incarico per gli attuali proprietari, la Regione Puglia e la Regione Basilicata, di venderlo entro l’autunno. Sul modello delle grandi aziende francesi, l’Acea e l’Aqp cercheranno di espandere il loro campo di azione, tentando di piazzarsi ovunque ci sia una gara di appalto da vincere. L’Aqp è il primo acquedotto in Europa e il terzo nel mondo, sei milioni di utenti, 309 milioni di metri cubi d’acqua e vale, secondo la stima dei periti, 774 milioni di euro. Mentre ancora si cercano capitali per la privatizzazione, l’azienda ha messo gli occhi sugli appalti algerini, giordani e libici. Riusciranno aziende cresciute come statali a reggere il confronto con i “market leader”, aziende che dominano il settore a livello mondiale da anni? C’è chi ne dubita, almeno nell’immediato, e non sempre per colpa loro. «Oggi -spiega Cesare Greco, direttore dell’Irsi, l’Associazione di imprese realizzatrici di schemi idrici- gli italiani non vanno a gareggiare in Francia perché non ne hanno la capacita, ma anche se ne avessero non riuscirebbero a vincere le gare perché le due principali aziende francesi hanno ottenuto un sistema protettivo che funziona egregiamente per i loro interessi. Così come in Italia va rotta la protezione che oggi c’è nei confronti del monopolio delle aziende pubbliche, in Francia va rotto il monopolio delle grandi multinazionali di origine francese che operano in tutto il mondo».

Questo è lo stato delle cose nel momento in cui in Italia la Finanziaria 2002 ha inaugurato la gestione delle reti idriche, lasciando agli enti locali il tempo di attrezzarsi per bandire le gare d’appalto. I privati prenderanno in mano le reti delle nostre città  e delle nostre regioni, secondo le leggi nazionali ed europee, che distinguono chiaramente le loro competenze dai doveri di supervisione che spettano all’amministrazione pubblica. «La normativa europea -illustra Greco- dispone che nella prestazione dei servizi idrici, al settore pubblico compete l’organizzazione e il controllo dei livelli del servizio, compresa la fissazione delle tariffe. Il privato quindi concorre nei limiti tariffari fissati dal pubblico, che deve poi verificare l’osservanza del contratto di fornitura». L’Italia, dal punto di vista dei privati, è parecchio indietro. «I cinquant’anni di gestione pubblica hanno impedito per legge alle aziende di rientrare nelle spese. Fino al 1974 era addirittura vietato superare con le tariffe la copertura dell’ottanta per cento dei costi. Almeno il venti per cento doveva andare ai cittadini sotto forma di imposizione fiscale …». Poi c’è stata l’introduzione delle tariffe modulate secondo i consumi: a Roma chi consuma pochi litri al giorno paga pochi centesimi al metro cubo, chi invece supera una certa soglia paga fino a due euro e mezzo, oltre agli oneri di depurazione. Una fase di passaggio verso una progressiva individualizzazione del rapporto tra i cittadini e l’acqua: all’inizio c’erano tariffe uguali per tutti, gli sprechi di qualcuno erano compensati dal risparmio di altri, con un forte intervento pubblico per colmare le disparità ; poi il passaggio a un rapporto diretto tra chi fornisce l’acqua e chi la consuma, sotto l’occhio vigile dello Stato, che controlla le tariffe e la qualità  del servizio.

Si inserisce proprio qui la polemica del cartello di associazioni che si oppone alla privatizzazione delle reti idriche, che al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre ha fatto il punto della situazione a livello planetario. Come riferisce Riccardo Petrella, autore di diversi saggi sul concetto di “bene comune” e promotore del Manifesto per l’Acqua, «l’esperienza pluridecennale della Francia e dell’Inghilterra dimostra che una volta che il politico ha ceduto la gestione delle infrastrutture e dei servizi, il settore perde pian piano le conoscenze economiche e perde la capacità  di controllare i costi di produzione. Gli enti locali perdono quindi la stessa possibilità  di negoziare i prezzi, perché non sono più capaci di determinare quanto costano i servizi».

Dev’essere per questa ragione che gli ecologisti francesi hanno lanciato una campagna dal titolo “L’eau n’est pas une marchandise”, l’acqua non è una merce, per chiedere l’istituzione di un Alto Consiglio dell’Acqua, un’authority indipendente che possa confrontarsi alla pari con le appaltatrici, piccole, grandi e anche con gli oligopoli mondiali dell’acqua. All’Alto Consiglio, secondo il progetto di legge presentato dall’ex ministro della gestione del Territorio Dominique Voynet e portato avanti dal suo successore Yives Cochet, dovrebbe essere possibile modificare i contratti di concessione che violano i diritti dei consumatori e contestare tempestivamente le infrazioni delle aziende appaltatrici. Ci sono in Francia dei comuni dove le aziende hanno preteso un balzello di 230 euro per utenza prima di cominciare l’erogazione, e secondo Petrella l’effetto di miglioramento dei prezzi non si è visto: «In Francia, delle venti città  dove i prezzi sono più elevati, diciotto sono servite dai privati e nelle venti città  con i prezzi più convenienti, diciotto gestiscono l’acqua in autonomia diretta…».

E la qualità ? Un’altra prerogativa della privatizzazione italiana è che gli enti pubblici fungeranno da tramite tra i privati e le Autorità  di bacino. Vuol dire che il gestore privato non potrà  scegliere dove procurarsi l’acqua, ma dovrà  adeguarsi alle indicazioni del settore pubblico. In più, dovrà  garantire una fornitura di non meno di 150 litri di acqua al giorno per abitante, disponibili durante tutto l’arco della giornata, quindi senza turnazioni, assumendosi la responsabilità  della rete fognaria e di depurare tutto prima di riversare nelle falde, nei fiumi e nei mari. Un bel lavoro davvero, dal momento che le grandi città  italiane sono assolutamente indietro da questo punto di vista. Se Milano ha rimandato per vent’anni qualsiasi decisione sulla depurazione delle sue acque, contribuendo a fare del Lambro il fiume più inquinato d’Italia, i depuratori di Roma sono così inadatti al compito da avere reso non balneabili le acque del Tirreno vicine alla foce del Tevere.

La cattiva gestione pubblica può essere migliorata? Secondo Greco, no. «Io debbo dire, con la mia esperienza, che il privato lavora meglio, rende di più. La legge Galli [che tutela gli utenti secondo gli stessi standard poi adottati dall’Ue] in Italia è applicata solo verso 8 milioni di italiani. Non c’è dubbio che la privatizzazione dei servizi porti maggiore efficienza e maggiore spirito nell’organizzazione del lavoro». Una delle argomentazioni decisive a favore dell’intervento pubblico è che solo lo stato può spendere per portare dappertutto l’acqua, così come il gas, la posta e altri servizi pubblici. I privati che gestiranno le nostre reti idriche sono disposti a portare l’acqua anche in villaggi sperduti? La legge Galli ha previsto in questo senso un sistema di ambiti territoriali ritagliati dalle regioni, nel quale per esempio la Lombardia sarebbe divisa in dodici ambiti, mentre alle regioni più piccole come il Molise e la Valle d’Aosta ne spetterebbe uno. Ogni ambito territoriale avrebbe una tariffa comune a tutti gli abitanti, in modo che il risparmio di un ambito compensi i costi dell’altro (che comprendono la fornitura dell’acqua così come la depurazione). Ma chi garantisce la qualità  dei servizi? «Nelle autorità  d’ambito saranno presenti le organizzazioni dei consumatori e quelle ambientaliste, che faranno sentire la loro voce si uniranno ai sindaci nel controllo della qualità  del servizio». Secondo Greco la gestione pubblica, per come ha operato finora, è da bocciare. Quasi la metà  degli italiani, lo dicono i dati Istat, non è soddisfatta della qualità  dell’acqua del rubinetto, al punto che in regioni come la Sardegna, la Toscana, l’Umbria e la Sicilia quasi il 70 per cento degli utenti dichiara di bere quasi solo acqua minerale. «Dobbiamo scegliere: ci conviene continuare a pagare l’acqua minerale un euro al litro, ed avere un’acqua del rubinetto a una lira al litro, che però non possiamo bere, o pagare l’acqua del rubinetto 2 lire al litro e abolire l’uso dell’acqua minerale, dannosa al portafogli e dannosa per la salute?»

Petrella, è così? Davvero la privatizzazione migliora la qualità ? «Tutto il contrario. Un rapporto recente dimostra che 5,6 milioni di francesi non hanno accesso ad acqua potabile di buona qualità  e la massima parte delle località  dove l’acqua non è buona è gestita dai privati. In Inghilterra la qualità  dei servizi è precipitata a livelli molto bassi. Il taglio dei servizi è aumentato del 27 per cento e la democrazia e la trasparenza, che loro promettono, sono fandonie. La realtà  mostra che i privati, rispetto ai gestori pubblici, sono molto opachi, deliberatamente».

Se a partire dalla nuova stagione la cosiddetta società  civile (le associazioni ambientaliste, i consumatori) avrà  molto peso nelle scelte relative alla gestione dell’acqua, perché finora ha taciuto? Perché finora i comitati, le associazioni non sono riusciti a migliorare la qualità  dell’acqua di Ferrara, che è fra le peggiori d’Italia perché viene presa dal Po, che raccoglie i pesticidi e gli scarichi di tutto il bacino del fiume? La privatizzazione risveglierà  i mercati, può darsi, ma come farà  a dare la scossa alla coscienza civile, che non è bastata finora a dare un depuratore a Milano? Davvero il cittadino-consumatore è più coscienzioso del cittadino-contribuente? Più severo e attento nei confronti dei privati che nei confronti del gestore pubblico? Petrella prevede il contrario: «Attraverso la conoscenza esclusiva degli elementi economici, scientifici, tecnologici e manageriali, il privato acquista il potere assoluto di decisione della allocazione delle risorse. Questo fa in modo che il privato sistematicamente falsifichi i dati e l’esperienza francese è questa. In Francia ci sono state centinaia di processi contro gestori che hanno sopravvalutato i costi e sottovalutato i bisogni reali di ammodernamento delle reti». Mentre tenta di recuperare un investimento, il gestore acquisirebbe il monopolio delle conoscenze, che in seguito sono lo strumento più efficace per gestire il sistema idrico. Dall’altra parte lo Stato, ceduto il controllo del sistema e delle competenze che servono a gestirlo, sarà  sempre più costretto a fidarsi dei privati. E gli utenti? Tengano d’occhio le quotazioni delle multinazionali che controllano le acque minerali, si prevedono novità .

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PRIVATIZZAZIONI:il caso delle ferrovie in Gran Bretagna
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CAMPAGNE: il manifesto per l’acqua
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REPORT: Acqua pagata acqua regalata
di Bernardo Iovene
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PANORAMA: Guida alle acque minerali
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IN RETE

I giganti della privatizzazione dell’acqua:

Suez-Vivendi-Ondeo
www.ondeo.com
oppure
http://www.suez-lyonnaise-eaux.fr

Generale des Eaux
http://www.generale-des-eaux.com/

Saur
http://www.saur.com

L’acqua non è una merce. Chi si oppone alla privatizzazione:
Comitato Italiano per il Contratto Mondiale sull’acqua
http://www.cipsi.it/contrattoacqua/

Per aderire al Manifesto mondiale dell’acqua
http://www.cipsi.it/contrattoacqua/home/adesioni/manifesto.asp

Il portale del diritto all’acqua (in francese)
http://www.h2o.net

Il 14 settembre saremo centomila

di Paolo Flores d’Arcais
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Perciò, il 14 settembre, esattamente tra un mese, da tutta Italia la società  civile scenderà  in piazza a Roma per dire no alla ignobile legge Cirami che vuole consentire agli imputati “eccellenti”? di scegliersi il tribunale che preferiscono. O più esattamente: che intende consentire agli imputati che se lo possono permettere – per gravità  dei reati e per dovizia di avvocati —  di dar vita a un indecoroso “gioco dell’oca”? giudiziario, con cui rifiutare un tribunale dopo l’altro, fino alle calende greche dell’impunità  per prescrizione.

Per una legge del genere la Casa delle impunità  sta imponendo al parlamento tempi da Schumacker, per le necessarie riforme della giustizia (o altri problemi altrettanto urgenti), invece, tempi biblici o la più assoluta latitanza.

Quella del 14 settembre, tra un mese appena, sarà  una manifestazione spontanea, chiesta a gran voce da quelle migliaia di persone che il 31 luglio si sono ritrovate a gridare “vergogna!”? di fronte a un Senato che faceva a pezzi lo Stato di diritto, e a nome loro annunciata pubblicamente da Nanni Moretti.

Una manifestazione, quella del 14 settembre, che vuole salutare a Roma almeno centomila cittadini. Un obiettivo un po’ folle, certamente, dato il carattere assolutamente non-organizzato delle “forze”? che hanno lanciato questa sfida. Ma un obiettivo irrinunciabile, se vogliamo che l’indignazione contro lo squadrismo governativo in doppiopetto, che intende rovesciare l’illegalità  in “legalità ”?, si trasformi in forza concreta, vale a dire nella concreta possibilità , per ogni cittadino democratico, di contare nella vita politica, di esercitare potere politico, e di restituire con ciò alla parola “politica”? la sua dignità .

A organizzare questa manifestazione non sarà  nessuno. Non sarà , cioé, nessuna organizzazione. Sarà  ciascuno di noi. Da ciascuno di noi, singolarmente preso, dal suo impegno, dalla sua passione civile, dalla sua pazienza e tenacia organizzativa, dipenderà  la riuscita o meno della giornata del 14 settembre. Abbiamo a disposizione solo mezzi poverissimi e artigianali, ma proprio per questo possiamo dimostrare una volta di più – triplicando il Palavobis – che si può fare politica, in prima persona, anche con risorse limitatissime.

Credo che in molti lo stiano già  facendo. Sulla base dei primi scambi di informazioni, provo a riassumere le molte attività  con cui si può già  lavorare alla riuscita della manifestazione:

telefono, e-mail, “messaggini”?, restano strumenti fondamentali di un tam tam personale che annunci e promuova la manifestazione.

chiunque abbia già  deciso di andare a Roma in automobile, e abbia posti disponibili, può trovare il modo di comunicarlo.

piccoli gruppi di amici, o anche singoli, possono farsi promotori di un pullman, stabilire subito i contatti per affittarlo, comunicarlo nella propria città  o nel proprio quartiere. Con i seguenti strumenti:

ogni luogo dove esistano cittadini democratici organizzati, dal sindacato alle parrocchie, dalla Lega ambiente all’Arci, dai boy scout ai circoli sportivi, e naturalmente dai partiti alle loro sezioni giovanili, costituisce un momento privilegiato per annunciare e promuovere la manifestazione, e anzi per organizzarla insieme, per dar vita a un pullman.

ogni festa dell’Unità , ogni concerto, ogni rappresentazione teatrale, può costituire analoga occasione, per promuovere un pullman, per invitare alla manifestazione, per mobilitare nuove energie.

ciascuno può utilizzando le rubriche delle lettere nei quotidiani per promuovere la manifestazione, e può tentare di utilizzare allo stesso scopo le radio locali.

fare un volantino al computer, scrivendo quattro volte il testo su un foglio A4 (formato stndard), fotocopiarlo e poi dividerlo in quattro, significa avere migliaia di volantini ad un costo irrisorio e con una tecnica alla portata di tutti.

organizzandosi, ogni associazione, ogni gruppo,ogni pullman, preparerà  le proprie bandiere, gli striscioni, i cartelli, le caricature, i pupazzi, con cui animare la manifestazione di Roma.

Ciascuno di noi, insomma, può concretamente essere un “opinion leader”? per realizzare questo appuntamento un po’ folle ma più che mai necessario.

Anche perché non potremo certo contare su una informazione televisiva (che pure sarebbe doverosa se solo rispettasse la regola dell’imparzialità ), che ormai é divenuta quasi sistematicamente disinformazione. La nostra “televisione”? dovremo essere solo noi, ciascuno di noi con quei poverissimi strumenti di comunicazione sopra ricordati. Ma questo moltiplica il significato della manifestazione di Roma, in positivo o innegativo, sia se riesce sia se fallisce: nel primo caso dimostrerà  che il monopolio televisivo totalitario – pur costituendo un vulnus irrimediabile alla democrazia – non é in grado di far tacere l’indignazione e la coscienza civile, la sua capacità  di lotta, rendendo concreta la speranza di future e non lontane vittorie istituzionali ed elettorali.

La manifestazione nazionale del 14 settembre a Roma costituirà  solo l’inizio di una prolungata battaglia democratica. All’impegno civile nelle piazze (un diritto garantito dalla Costituzione, un esercizio di democrazia altrettanto essenziale che la libertà  di voto) si accompagnerà  a Montecitorio un ostruzonismo parlamentare a 360 gradi, che si eserciterà  su tutti i provvedimenti dello schieramento governativo ed utilizzando tutti gli strumenti che la legge e i regolamenti mettono a disposizione, fino a che l’ignobile legge Cirami non venga ritirata: lo ha solennemente confermato proprio su queste pagine l’on. Violante, capogruppo dei Ds. Questo solenne proposito di paralizzare i lavori del parlamento proprio per costringere il governo a restituire a questa istituzione la sua funzione democratica, il suo onore, il suo prestigio, renderanno possibile un circolo virtuoso democratico tra parlamento e società  civile, una sinergia che offrirà  ai partiti di opposizione l’occasione per aprirsi di nuovo ai cittadini.

Ma la manifestazone del 14 settembre a Roma costituirà  solo l’inizio di una stagione di lotte democratiche anche perché il governo Berlusconi é fermamente intenzionato ad imporre altri provvedimenti vergognosi: dalla restaurazione del privilegio dell’immunità  per i parlamentari, al vergognoso sfascio programmatico della sanità  pubblica e della pubblica istruzione. Dunque, sarà  necessario pensare ad una serie di referendum per abrogare le principali leggi-vergogna già  approvate o che il governo riuscirà  nel prossimo futuro ad imporre. Insieme al referendum contro le modifiche all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, già  annuciato da Sergio Cofferati se il governo non farà , su questo tema, marcia indietro (e dispiace, in proposito, che Rifondazione comunista, avendo promosso un diverso referendum sullo stesso tema, rischi di alimentare confusioni e quindi rischi di sconfitte).

Una inevitabile stagione di referendum, dunque, per i quali raccogliere le firme nel 2003 e votare nel 2004. E in ottobre il nuovo sciopero generale indetto dalla Cgil, che accanto ai lavoratori in lotta per difendere la dignità  e la sicurezza del posto di lavoro, vedrà  tutta la società  civile democratica, consapevole che diritti dei lavoratori e diritti civili sono due facce di una stessa medaglia democratica.

A partire dalla manifestazione del 14 settembre a Roma, é necessario e possibile coinvolgere in questa prolungata lotta democratica anche tanti, tantissimi cittadini che alle scorse elezioni hanno votato per Berlusconi e i suoi alleati, convinti davvero che il suo governo avrebbe diminuito le tasse, dato slancio alla produzione, modernizzato l’amministrazione pubblica, razionalizzato la giustizia abbreviandone i tempi, ecc. E che ormai sono costretti a constatare come Berlusconi si impegni davvero e senza risparmio solo quando sono in gioco gli interessi personali (spesso inconfessabili) suoi e di un ristretto manipolo di amici e sodali.

Del resto, tutti i temi che Palavobis e girotondi (ma anche lotte operaie e sindacali) hanno imposto nei mesi scorsi all’attenzone del paese, non riguardano affatto solo la sinistra. Prescindono, anzi, dalle scelte ideali o ideologiche di sinistra, di centro, di destra (almeno per il senso che queste parole hanno in Europa e fiananco negli Stati Uniti). Riguardano i diritti (e i doveri) elementari di ogni cittadino in una demcorazia liberale, inuno Stato di diritto. Sotto questo profilo, é fuorviante descrivere Berlusconi come un uomo di destra: di destra é certamente Bush, che tuttavia, di fronte alla crisi di fiducia che scuote la borsa per le malversazioni dei manager, porta la pena massima per il falso in bilancio a 25 (non é un errore: venticinque!) anni di carcere. Da noi, invece, chi non applaude totale depenalizzazione di fatto di questo reato é accusato, dalla Casa delle impunità  e daille sue cheerleader mediatiche, di giustizialismo giacobino. Casa delle impunità , dunque, che é anche Casa delle menzogne ma infine, con questi ritornelli, Casa del ridicolo.

Ecco alcuni motivi per i quali la manifestazione del 14 settembre a Roma deve riuscire, magari anche un poco al di là  nostri già  “folli”? obiettivi, grazie al lavoro infaticabile di ciascuno nelle prossime settimane. Perché ne va della democrazia e delle libertà  comuni, del futuro prossimo di tutti i cittadini di questo paese.

PER PARTECIPARE: per tutte le informazioni sulla manifestazione e su come contribuire ad organizzarla, fare riferimento al sito www.manipulite.it

Paolo Flores d’Arcais
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Alta Murgia ecco chi non vuole quel parco

“la Repubblica – Bari” del 15 agosto 2002
www.bari.repubblica.it

ALTA MURGIA, ECCO CHI NON VUOLE QUEL PARCO

All’inizio fu la marcia per la pace Gravina Altamura del 1985 che voleva preservare l’Altamurgia come terra di pace contro i poligoni militari e i depositi di scorie nucleari, rivendicandone il ruolo agrosilvopastorale. Quella meravigliosa esperienza – cui parteciparono anche i Vescovi di Terra di Bari con don Tonino Bello – venne ripetuta nel 1987 imponendo una proposta che nel suo insieme era di enorme valore storico culturale e prefigurava l’attivazione di un processo sociale ed economico tendende a far uscire la murgia dal degrado e dalla ‘marginalità ‘. Era la proposta della costruzione del primo Parco rurale d’Italia: parco che in seguito – prima con la 394/91 (legge quadro sulle aree protette) viene inserito tra le aree di reperimento e poi proposto dall’allora Ministro dell’Ambiente, Edo Ronchi, con la legge 426/98 (nuovi interventi in campo ambientale) – e che assumerà  la dizione di parco nazionale dell’Alta Murgia.
Era il tentativo, l’unico possibile, di sottrarre un ingente patrimonio naturale alla continua devastazione cui la Murgia è stata sottoposta: ricettacolo di rifiuti e reflui industriali, con i muretti a secco distrutti, continui furti di trulli e ulivi, con un immenso prato di pietra ‘scarificato’ nella sua singolarità  da potenti mezzi frantumatori. Nonostante questo continuo e perdurante saccheggio, la Murgia ha reagito regalando, proprio alla città  di Altamura, preziosi tesori archeologici: l’uomo carsico e le orme dei dinosauri.
Molti si erano illusi credendo che queste scoperte – avvenute un po’ per caso, un po’ per la passione dei giovani del Centro Altamurano Ricerche Speleologiche – avrebbero convinto i più refrattari oppositori sull’opportunità  che deriva da un parco naturale unitamente ai giacimenti archeologici, storici e architettonici che la Murgia possiede.
Sono passati quasi cinque anni dalla legge che ne prevede l’istituzione. Quindici anni, invece, da quando la proposta venne elaborata dal centro studi Torre di Nebbia di Altamura e da altre sensibilità  ambientali. Si é manifestato in tutti questi anni sulla murgia quello spirito di partecipazione democratica, introvabile altrove, nelle fasi di elaborazione della proposta del Parco che ha trovato poi giusta collocazione nelle leggi successive. Ed è singolare e anomalo come gli amministratori di una città , quella di Altamura, culla della proposta di questo grandioso progetto di costruzione collettiva, abbiano in tutti questi anni boicottato, impedito, evitato la nascita del parco nazionale. Ultimo, il tergiversare continuo e le richieste di un ulteriori approfondimenti (su cosa?) degli attuali amministratori del Comune di Altamura che offrono così una improbabile sponda alla Regione che certo non brilla per iniziativa e decisione sulla vicenda parco.
La proposta di costruzione del parco nazionale dell’Alta Murgia ha raccolto nei suoi quindici anni di storia, continue e reiterate adesioni di associazioni di categoria, ambientaliste, imprenditoriali. Cosi come le adesioni del mondo politico e amministrativo dei Comuni della Murgia tanto di destra, che di centro e di sinistra. Per anni l’impraticabilità  dell’istituzione del Parco nazionale veniva fatta ricadere sulla gestione della Giunta Plotino e sulla imperante trasversalità  degli interessi che in quegli anni avevano avuto facile gioco. Quegli stessi interessi sono ancora oggi – con una giunta di centrosinistra – di traverso al possibile pronunciamento finale sulla vicenda parco.
Prima poche frange di agricoltori cui non è stata fornita una corretta informazione, ora gli accordi della Legge Regionale 34 con i neoimprenditori che vogliono disarticolare una corretta e indispensabile gestione urbanistica del territorio. Quello che è difficile comprendere é la tattica del rinvio sine die da parte della Giunta altamurana che continua irresponsabilmente a confondere l’adesione al parco con atti amministrativi di altra natura ed importanza come gli accordi di programma previsti dalla famigerata Legge 34. L’istituzione del parco – come cita la legge 394 e cosi come è avvenuto per tutti i parchi nazionali – fa salvi gli strumenti urbanistici adottati. Diventa, quindi, un mistero l’adesione al parco con l’accostamento agli accordi di programma. Certo, non giova lo sconquasso urbanistico che la città  e il territorio di Altamura ha vissuto negli ultimi vent’anni. L’esistenza di siti industriali, che andrebbero immediatamente riqualificati e resi funzionali, della nuova area industriale di Jesce e la diffusione di tante attività  artigianali, fa ritenere inutile la ricerca di nuove aree industriali – come quella di Cenzovito – in zone di enorme pregio ambientale, ma fa capire che forse ci sono o interessi imprenditoriali trasversali o evidenti incompetenze. Non fare del territorio di Altamura una totale area industriale, non vuol dire bloccare lo sviluppo e l’occupazione, ma significa far convivere armonicamente natura, sviluppo e lavoro. La proposta di realizzazione del parco ha rappresentato la novità  nel programma di centrosinistra ed ha contribuito non poco alla sua affermazione dopo otto anni di gestione del centrodestra.
CIRO PIGNATELLI

Trent’anni di storia del pop italiano nel libro di Silvio Teot

Articolo tratto da “la Repubblica-Bari” del 9 agosto 2002

Trent’anni di storia del pop italiano in un libro sugli Uaragniaun di Altamura

LA VIA PUGLIESE ALLA WORLD MUSIC
di BEPPE LOPEZ

Sono rare le occasioni per fare un viaggio, un viaggio vero, all’interno di una generazione, la generazione – se si può dire – per antonomasia. La generazione a cavallo tra il Sessantotto e il Settantassette che ha vissuto utopie e cambiamenti epocali, esaltazione del collettivo e stabilizzazione dell’individualismo, e che ha superato i quaranta senz’accorgersene (e forse anche i cinquanta). Un viaggio vero lo consente solo un’esperienza di gruppo che non si è chiuso nel localismo e non si è persa per le anonime strade del cosmopolitismo, che si è votata alle radici, al territorio e, insieme, agli intrecci, alle commistioni, all’arricchimento identificativo e identitario con le cause dei diseredati e gli slanci dei generosi che parlano, in tutto il mondo, lo stesso linguaggio del cuore e della mente, che partecipano agli stessi problemi dell’umanità  (schierandosi istintivamente dalla stessa parte), che amano la stessa musica. In questo senso è almeno trent’anni che il mondo è globale. E che la musica è globale: la world music.
Non esattamente il pop, non più il rock, non solo il folk, non proprio l’etnica, non il jazz vero e proprio… Una musica che è, insieme, esperienza generazionale, talento ed eccellenza tecnica, partecipazione politica, cultura, stare insieme, condividere una visione del mondo e, soprattutto, un mondo concreto, fatto di persone, di lotta per la sopravvivenza, di difesa della dignità  degli individui…
Il regalo di questo inaspettato viaggio lo si riceve sfogliando, anzi leggendo d’un fiato le 260 pagine di “Trent’anni suonati” di Silvio Teot (piazzaedizioni, Altamura, euro 12,50). Inaspettato perché il volume, pur nella curata veste grafica, si propone col profilo basso di un sottotitolo che recita: “Note fuori dal pentagramma sulla musica popolare italiana attraverso l’esperienza Uaragniaun”. Insomma, una specie di diario storico della nascita, della crescita, dei concerti, dei Cd e degli “incontri” di uno dei più importanti e solidi gruppi folk europei, italiani, meridionali e pugliesi, appunto gli altamurani Uaragniaun, capitanati da Maria Moramarco (una delle più belle voci mediterranee in assoluto e per giudizio unanime), dal chitarrista suo marito Luigi Bolognese e, appunto, dal percussionista Silvio Teot.
In realtà , la continuità  trentennale, i collegamenti e le caratteristiche di rigore di questo gruppo (che non ha mai scelto il professionismo puro continuando ad essere “persone fra persone” e che non ha mai preteso di riprodurre filologicamente la tradizionale musica popolare ma nemmeno l’ha piegata a sciagurate manipolazioni commerciali), insieme alla particolare sensibilità  e passione con cui l’autoremusicista ha vissuto questi trent’anni, hanno prodotto un volume raro. Da consigliare non solo a chi voglia sapere e capire, in tutti i suoi aspetti (storici, tecnici, umani, problematici, ecc.), uno dei capitoli più ricchi e istruttivi della storia contemporanea, delle sue contraddizioni, delle sue lacerazioni ma anche della sua permanente e complessa unicità  – il capitolo che solo riduttivamente può essere catalogato come “musica popolare” – ma anche a chi voglia capire com’è che noi meridionali, che noi uomini del mondo siamo arrivati al punto in cui siamo, e su cosa possano poggiare le nostre speranze in un mondo di nuovo globale.
Nel catalogo di questi “Trent’anni suonati” c’è di tutto. È impossibile tentare anche uno scarnissimo elenco di questioni, eventi, cose e persone. Si parte in una qualche maniera, nel dicembre del 1978, con la rappresentazione del natale nel villaggio cavernicolo di Piscialo e dai ragazzi dello Zoo della Murgia. Fare pipì sulla chitarra è musica! “Via Demetrio Stratos”. Otello Prefazio, Compagno cittadino fratello partigiano, il tarantolato lucano Angelo Infantino, violoncello e tammorra, le radio libere, la terra di mezzo fra Gargano e Salento, le canzoni dei cafoni, discodance e terrorismo, Mercadante, Ermanno Olmi, la politica intanto era sempre più puttana, Matteo Salvatore, l’organetto di Ambrogio Sparagna, la guerra in Medio Oriente, Daniele Sepe, i zampognari, la pizzica, tarantella power, il rispetto delle fonti e la questione etica dei diritti d’autore, l’arte di arrangiarsi, il falegname musicista di Ostuni, Beppe Barra, Alfio Antico, gli scazzi personali, lo slow food, l’11 settembre…
“Chi avrebbe mai immaginato che la musica popolare sarebbe sopravvissuta e resuscitata alla grande a metà  degli anni Novanta? Pochi, pochissimi”, annota Teot, dopo il racconto dei faticosi e quasi clandestini anni Ottanta, durante i quale tutto sembrava perduto. “Tuttavia quella musica covava sotto la cenere della crisi, del riflusso, della discodance, del terrorismo…”. Ecco: l’inaspettato e probabilmente inconsapevole regalo che ci fa questo volume è la minuziosa, cronachistica, appassionata descrizione di una materia, di un mondo, di una maniera di stare al mondo che cova oggi sotto la cenere dei valori, dei sentimenti, delle passioni e delle opportunità  che qualche zelante cultore della “globalizzazione” ritiene irreversibilmente e definitivamente bruciati dal fuoco della standardizzazione e della omologazione.